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il 01/08/2007 |
Sam
Baker
La prima volta in cui sentì
qualcuno cantare una storia fu da Johnny Cash: la madre non la smetteva di far
suonare quel disco, Ride this Train, e Sam Baker si innamorò al primo istante
dell'America che The Man in Black andava narrando, prima ancora di prestare
attenzione ad una singola nota. Da allora, perso in una piccola cittadina texana
a sud ovest di Dallas, è passato molto, troppo tempo: Sam Baker lo ha tracorso
sulla strada, come si conviene ad un ragazzo che da grande vuole diventare uno
storyteller fatto e finito. Oggi che non è certo un novellino può raccogliere
i frutti di una vita un po' alla deriva, compresa una morte scampata per miracolo
durante un attentato su un treno, mettendo in fila volti, vicende umane, quotidianità
spicciola che vanno a colorare la tavolozza della sua musica. Mercy,
soltanto due anni fa, era stato una rivelazione per chiunque avesse a cuore l'antica
arte del songwriting, una raccolta di folk song aspre e poetiche, un romaticismo
figlio di alcuni irriducibili loner della canzone d'autore come Townes
Van Zandt e Guy Clark. Sono nomi e paragoni artistici che inevitabilmente sbucano
fuori anche in occasione del nuovo lavoro, Pretty World, altra manciata
di ballate attraversate da quel piglio un poco incerto e naif che contraddistingue
la sua voce: strascicata, sorniona, vera. Sam Baker fa parte di una specie in
via di estinzione e chi è in cerca del nuovo che avanza o anche solo di un "new
kid in town" capace di rivitalizzare il suono Americana si faccia da parte: qui
ci sono short stories degne di uno scrittore navigato, versi che sono piccole
schegge, una bellezza brusca, intensa, racchiusa in poche linee descrittive, pennellate
veloci che denotano lo stile "svogliato" di Baker, il suo essere fuori dai giochi
perché senza tempo. Uno che inaugura un disco con un brano intitolato Juarez,
ripetendo ad ogni strofa "he sings waiting around to die", ha già tracciato
un solco, delineando un ritratto dell'umanità che andrà a raccontarci. Nello specifico
è una ballata contraddistinta da un suono desertico con la steel di Mike Daly
(anche slide guitar) e l'accordion di Joel Guzman, due fra i tanti amici
rapiti dal talento di Baker: potete aggiungerci Lloyd Maines, Walt Wilkins,
Gurf Morlix (con il quale ha girato l'Italia lo scorso anno) e le voci
di Marcia Ramirez, Chris Baker-Davies, Britt Savage e Davis Raines. Hanno tutti
appreso l'arte della moderazione, cucendo attorno ai racconti in musica di Sam
Baker un country rock parsimonioso, quando non un vero e proprio asciutto sound
acustico allo John Prine, altro punto di riferimento imprescinbile. In tal senso
non passano inosservate Odessa - aperta da una citazione del traditional
Hard Times Come Again No More - e ancora di più la filastrocca commovente di Boxes.
In generale si assiste ad uno "scontro" fra la dolcezza roots dell'accompagnamento
musicale, tra cui Orphan, Slots e la più elettrica Psychic,
con il ruvido contenuto dei testi e dei personaggi che li animano, sempre e comunque
aperto ad una struggente poetica folk, che nel finale dimesso di Broken Fingers
e Days (liriche in spagnolo e inglese) riduce tutto quanto all'osso. |