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28/08/2006
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Ray
Wylie Hubbard Un passo indietro per il
cantautore texano, che tanto aveva impressionato con l'ultimo Delirium
Tremolos, forse il vertice della sua carriera trentennale da
"fuorilegge". Non capisco davvero quali siano le intenzioni di Ray
Wylie Hubbard: la quadratura perfetta del precedente disco fa a farsi
benedire e invece di proseguire su quella strada, bilanciando con mestiere
country e rock'n'roll, Snake Farm ritnorna sul country blues
torbido che aveva caratterizzato dischi come Eternal
Lowdown e Growl,
solamente con una ostinazione ancora più decisa. In effetti il complimento
migliore che si possa fare a questa nuova raccolta di canzoni è la loro
assoluta omogeneità: tutto l'insieme suona concatenato, un brano la prosecuzione
dell'altro, in un turbinio di blues rock fangoso. Voce cavernosa e ambientazione
da palude del Mississippi, Snake Farm è infatti un disco dalle strutture
blues che non ha nulla da spartire con il movimento outlaw di cui
Hubbard da sempre rappresenta una voce credibile. Prodotto come sempre
dall'inseprabile Gurf Morlix, le cui chitarre raddoppiano grazie
alla presenza di Seth James, Snake Farm ha il suono di un vecchio
juke joint, qualcosa che potrebbe stare a meraviglia nel catalogo della
Fat Possum (vedi la dura Kilowatts). I ritmi ossessivi, le chitarre
gracchianti e la slide che fende l'aria, le atmosfere appiccicose e "corrotte"
sono la colonna sonora di un viaggio nella notte più scura: a suo modo
risulta persino una gran disco di delta blues, vedi la degna accoppiata
di Heartaches and Grease e The Way of the Fallen, il coro
femminile in Resurrection, l'armonica (Ray Bonneville) ficcante
della lugubre Mother Hubbard's Blues, il movimento vizioso di Old
Guitar. Ad un passo dal rock'n'roll si muovono invece Rabbit
e Live and Die Rock and Roll, anche se i momenti più avvincenti
a mio parere sono racchiusi nelle lente ballate blues Polecat (con
il mandolino di Peter Rowan) e Wild Gods of Mexico. Resto tuttavia
dell'idea che Hubbard abbia le capacità per andare oltre queste sonorità,
che tra l'altro aveva già ampiamente indagato e con apprezzabili risultati
in passato. Tant'è, dobbiamo accontentarci della sua rinnovata passione
per il blues, che purtroppo non sa rendere altrettanto interessante dal
punto di vista dei testi: Hubbard non è mai stato un poeta per carità,
ma a volte si tratta veramente dei soliti luoghi comuni, compresi incontri
con il diavolo, tentazioni peccaminose e via di questo passo. |