Come
ampiamente previsto, giunge a conclusione l'ideale trilogia di Ryan
Adams: un leggero sfasamento di pubblicazione nel caso dell'edizione
europea (negli States licenziato già da metà dicembre), ad ogni modo 29
è l'atto terzo di un 2005 dal raccolto abbondante. È stato di parola,
non badando alle critiche più volte piovutegli adosso per la sua eccessiva
prolificità, una dipersione di talento che secondo alcuni non lo avrebbe
aiutato nella piena riuscita dei suoi più recenti lavori. Ovvio che, almeno
nei casi di Cold
Roses e Jacksonville
City Nights, vedi anche i nostri Oscar del 2005, non siamo
stati dello stesso parere, anche perché l'omogeneità di scrittura e la
coerenza di ognuno di questi progetti manda bellamente a quel paese la
spocchia di molti detrattori. A ben vedere, da un punto di vista strettamente
tematico, anche 29 si presenta quale disco di fine tessitura, perché nell'alone
di struggente nostalgia che ricopre le sue liriche, ci mostra forse il
Ryan Adams più ispirato in veste di autore. Si tratta nello specifico
di un continuo rimuginare sul binomio amore e perdita e sugli anni della
sua crescita artistica, intitolato 29 proprio per sancire la chiusura
della prima parte della sua vita, all'avverarsi della svolta dei trent'anni.
Peccato non si possa riscontrare una medesima coesione proprio da un punto
di vista musicale, dettaglio non indifferente, che anzi costringe a considerarlo
il disco più "debole" del lotto, guarda caso registrato in assenza
dei sempre più indispensabili Cardinals. Ciò non significa evidentemente
che Ryan Adams non sia ancora una volta capace di aprire autentici squarci
di malinconica bellezza (Blue Sky Blues su tutte), tra magniloquenti
e verbose ballate folk come la lunghissima Strawberry Wine (roba
degna dei Red House Painters) o le uggiose e pianistiche Starlite Diner
e Elizabeth, You Were Born to Play the Part, ma è nell'armonia
della parti che qualcosa non gira per il verso giusto. La stessa 29,
un bluesaccio elettrico che morde il collo e apre il disco su toni decisamente
vivaci, stona al fianco delle ben più miti ballate che la seguiranno.
Così Carolina Rain, strepitoso esercizio country rock che avrebbe
però fatto miglior figura se collocata nella scaletta di Jacksonville
City Nights. Ed è proprio questa sorta di puzzle che permette di accostare
Night Birds alle prove di Love is Hell, lo spanish rock epico di
The Sadness a Cold Roses oppure la desolata Voices al primo
lavoro solista Heartbreaker...singolarmente canzoni ineccepibili, sia
chiaro. A 29 non difettano il suono (l'amico Ethan Johns, che produce
e si cimenta anche con chitarre, steel, batteria, harpsicord e ukulele),
ne tanto meno le liriche, quanto una visione d'insieme più coerente.
(Fabio Cerbone)
www.ryan-adams.com
www.losthighwayrecords.com
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