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inserito
il 03/10/2005
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Sarà pur vero che siamo ormai arrivati al settimo album in poco meno di
cinque anni, senza ovviamente contare una miriade di progetti collaterali
e i dischi mai pubblicati ma comodamente reperibili in rete, eppure Ryan
Adams continua a non sbagliare un colpo neanche a farlo apposta: Jacksonville
City Nights è il secondo pannello della trilogia di lavori annunciati
per il 2005, e seppur inferiore al monumentale Cold
Roses conferma in ogni caso l'ex-leader dei Whiskeytown come
la penna più prolifica e convincente fra quelle oggi in circolazione nell'ambito
del roots-writing nordamericano. A voler soppesare questo album o il suo
predecessore con strumenti critici affilati, i difetti, le lacune o le
imperfezioni si potrebbero riscontrare a bizzeffe, dacché dopo un'assidua
frequentazione suonano entrambi dispersivi, qui e là sfilacciati, di volta
in volta lacunosi o magari necessitanti d'una qualche sforbiciata. Ma
il punto non è ovviamente questo. La grandezza di opere simili risiede
proprio in uno squilibrio formale che sa tradursi in generosità di slancio
e comunicatività immediata. L'intento precipuo di Jacksonville City Nights
è quello di proporre una nuova versione, naturalmente aggiornata ai tempi,
dei vecchi lp di George Jones, quelli che nel raccontare di scorribande
sentimentali e serate trascorse a specchiarsi nel fondo di un bicchiere
aiutarono a codificare non pochi archetipi del genere country. L'omaggio
è dichiarato a partire dalla copertina, dove vengono accostati un volto
femminile in preda alla disperazione, il tavolo di un bar e un vetro rotto
per suggerire un immaginario composto da storie d'amore andate a male,
ma la rielaborazione dei suoni è tutta farina del sacco di Ryan, al solito
assai eclettico nel frullare tutta una serie di riferimenti ben precisi
(stavolta più country-oriented del consueto) in una proposta assolutamente
personale. Sul fatto che la solidità di una backing-band - i Cardinals
- dall'assetto ormai stabile gli abbia giovato non c'è dubbio alcuno,
ma il punto di riferimento dell'intero lavoro resta sempre e comunque
la scrittura bruciante, intensissima e coinvolgente di Ryan. Non è da
tutti inaugurare un disco con la pedal-steel e il piano honky-tonk di
A Kiss Before I Go senza scadere nella parodia o nel revival fine
a se stesso, ma lui ce la fa. Presumo che qualcuno troverà eccessiva la
patina d'altri tempi che avvolge il country classico di My Heart Is
Broken, l'eccezionale rockabilly semi-acustico di una The Hardest
Part o lo sbuffante western-swing della superba Trains, anche
se per quanto mi riguarda il giudizio è netto: questo è "solo" (solo?)
un gran disco country con qualche deviazione di percorso. Deviazioni che
non riguardano la pur bellissima The End, in cui nostro si fa letteralmente
a pezzi la gola, né l'intensità di Peaceful Valley o la splendida
melodia di Silver Bullets; mi riferisco altresì al duetto con Norah
Jones sulla strepitosa, bruciante elegia per pianoforte e batteria
jazzy di Dear John e all'infinita malinconia di una Don't Fail
Me Now che, nel suo disciplinato alternare solitari rintocchi del
piano e scossoni full-band, non può non ricordare il Nick Cave delle ballate
d'omicidio; mi riferisco, infine, all'incredibile rivisitazione di quella
Always On My Mind che fu di Elvis e Willie Nelson e qui, bonus-track
dell'edizione europea del disco, viene offerta in una lettura talmente
palpitante, talmente esagerata e talmente romantica da sbriciolare anche
il più roccioso dei cuori. Se c'è un problema con Ryan Adams, be', questo
non riguarda certo la sua iperproduttività: l'unico problema con i suoi
album è che si vorrebbe non finissero mai. |