Essendo il
mercato discografico completamente impazzito, in larga parte a causa della
migrazione degli incassi dalla sfera fisica a quella digitale, con conseguente
deprezzamento dell’operato di chi non accede a visibilità e riproduzioni
planetarie, è curioso constatare come artisti un tempo compromessi dalla
difficoltà di trovare un’etichetta disposta a pubblicarne gli sforzi vivano
oggi momenti di intensa, a tratti stupefacente prodigalità divulgativa.
Tra essi l’ottimo Michael McDermott, splendido cantautore elettrico
di Chicago per i cui album, nelle stagioni in cui questi uscivano a intermittenza
(anche per causa di una dipendenza da alcol e droghe messa definitivamente
a tacere soltanto dieci anni fa), avremmo dato l’anima e adesso, dopo
aver in pratica raddoppiato i titoli del suo catalogo nel giro di un decennio
scarso, si fa vivo addirittura con due opere distinte e contemporanee
come il Bruce Springsteen del 1992 o i Guns N’Roses dell’annata precedente.
Il risultato, anche se tutti noi avremmo voluto poter dire il contrario,
rappresenta il classico caso di dittico forse coerente sotto il profilo
delle sonorità ma assolutamente dispersivo in termini di esito finale,
capace di far rimpiangere il lavoro unico, digressivo e impressionista
che sarebbe potuto nascere mescolando i più riusciti tra i venti brani
qui proposti invece di suddividerne dieci per ciascuna scaletta. Stando
così le cose, le dieci tracce di Lighthouse On The Shore
- il gemello contemplativo - richiedono un discreto sforzo per entrare
in sintonia con le loro atmosfere plumbee e raccolte, quasi afasiche nel
caso di una Goddamnit Lovely nella quale, oltre al ronzare di un
bordone di tastiere, non accade assolutamente nulla e l’artista sembra
principalmente impegnato in un contorto ragionamento con se stesso e con
i fantasmi di una vita intera.
Certo, McDermott non ha perso la vocazione al mettersi in scena, viscere
e traumi compresi, con sanguinaria sincerità, ma stavolta alcune liriche,
per esempio quelle di un apocrifo degli U2 della fase "americana"
intitolato I Am Not My Father (sul tormentato rapporto con la figura
paterna non aveva detto tutto, e con ben altra intensità, la Shadow
In The Window di Willow
Springs?), tradiscono una ripetitività evidenziata pure dalla scelta
di riarrangiare qualche vecchia canzone in nuove e sospirose parafrasi,
utili forse a ribadire l’efficienza professionale della moglie Heather
Lynne Horton (ascoltatene il controcanto perfetto sulla rarefatta Hey
La Hey #23) benché piuttosto discutibili sul piano dell’urgenza espressiva.
Almeno nel folk-rock "trascendentale", atmosferico e magnificamente
eseguito di Gonna Rise Up e della
stessa Lighthouse On The Shore, McDermott
riesce ancora a suonare come un credibile (e neanche troppo derivativo)
epigono statunitense degli amati Van Morrison e Mike Scott; proprio per
questo, quindi, non si capisce per quale ragione tracce di simile caratura
siano state infilate a forza in una sequenza dove si trovano anche Where
God Never Goes, Grateful o Count Your Blessings, quel
genere di ballate autunnali e introspettive, alla Del Amitri degli esordi,
che il nostro ha già cantato mille volte e con immedesimazione assolutamente
imparagonabile.
Lo stesso
discorso vale anche per il sommario di un East Jesus - il
gemello rumoroso - parimenti altalenante, al cui interno si ha talvolta
l’impressione di trovare la rabbia, la foga e i toni brucianti del primo
McDermott, però penalizzati da una produzione e da sonorità così raccogliticce
da ricordare in più di un’occasione il discount dell’epica e del melodramma
sovente frequentato dagli Alarm di Mike Peters. Più delle strombazzate
Berlin At Night e A Head Full Of Rain, entrambe troppo poppeggianti
per convincere appieno, e tralasciando il r’n’r di grana grossa di una
Lost Paradise dalle sfumature quasi glam, a indurre approvazione
sono, su tutto, la sfrigolante elettricità di una Behind
The Eight in forma di lettera aperta all’Holden Caulfield di
J.D. Salinger (per contro, l’identificazione con l’omonimo personaggio
dei Peanuts della malinconica Charlie Brown indugia eccessivamente
nel piagnisteo autoconsolatorio), l’onirica narrazione folkie su paesaggi,
volti e scenari della felliniana The Circus e l’epos pianistico
finalmente senza freni o cinture di sicurezza dell’ultima Whose
Life I’m Living.
Un trittico che non solo conferma le virtù di McDermott in qualità di
autore e lettore (sarebbe interessante capire quanti siano in grado, tra
i più giovani, di decodificare le citazioni dall’eponimo autore di fantascienza
contenute nella Bradbury Daydream di Lighthouse On The Shore),
ma ne accresce la statura di continuatore quasi "sciamanico"
dello stile confessionale appartenuto a numerosi giganti del rock al momento
tragicamente privi di successori attendibili. Ma di questo, in tutta sincerità,
saremmo stati al corrente anche se East Jesus e Lighthouse On
The Shore non avessero mai visto la luce.
E siccome nell’opus di McDermott le opere intente a raccontare una storia
che conosciamo fin troppo bene rischiano ormai di sopravanzare gli episodi
più coraggiosi e innovativi, non possiamo fare altro, volendogli bene,
se non suggerirgli di mandare a quel paese le certezze del presente e
della sua striminzita ma fedelissima cerchia di estimatori per tentare
un rigenerante salto nel buio. In fondo, per chi in passato è sopravvissuto
a un naufragio esistenziale consumatosi "da Chicago all’orto del
Getsemani", non dovrebbe poi trattarsi di un’opzione così temeraria.