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Michael McDermott
Lighthouse On The Shore // East Jesus
[Pauper Sky/ Appaloosa 2024]

Sulla rete: michael-mcdermott.com

File Under: Due pezzi facili


di Gianfranco Callieri (14/09/2024)

Essendo il mercato discografico completamente impazzito, in larga parte a causa della migrazione degli incassi dalla sfera fisica a quella digitale, con conseguente deprezzamento dell’operato di chi non accede a visibilità e riproduzioni planetarie, è curioso constatare come artisti un tempo compromessi dalla difficoltà di trovare un’etichetta disposta a pubblicarne gli sforzi vivano oggi momenti di intensa, a tratti stupefacente prodigalità divulgativa. Tra essi l’ottimo Michael McDermott, splendido cantautore elettrico di Chicago per i cui album, nelle stagioni in cui questi uscivano a intermittenza (anche per causa di una dipendenza da alcol e droghe messa definitivamente a tacere soltanto dieci anni fa), avremmo dato l’anima e adesso, dopo aver in pratica raddoppiato i titoli del suo catalogo nel giro di un decennio scarso, si fa vivo addirittura con due opere distinte e contemporanee come il Bruce Springsteen del 1992 o i Guns N’Roses dell’annata precedente.

Il risultato, anche se tutti noi avremmo voluto poter dire il contrario, rappresenta il classico caso di dittico forse coerente sotto il profilo delle sonorità ma assolutamente dispersivo in termini di esito finale, capace di far rimpiangere il lavoro unico, digressivo e impressionista che sarebbe potuto nascere mescolando i più riusciti tra i venti brani qui proposti invece di suddividerne dieci per ciascuna scaletta. Stando così le cose, le dieci tracce di Lighthouse On The Shore - il gemello contemplativo - richiedono un discreto sforzo per entrare in sintonia con le loro atmosfere plumbee e raccolte, quasi afasiche nel caso di una Goddamnit Lovely nella quale, oltre al ronzare di un bordone di tastiere, non accade assolutamente nulla e l’artista sembra principalmente impegnato in un contorto ragionamento con se stesso e con i fantasmi di una vita intera.

Certo, McDermott non ha perso la vocazione al mettersi in scena, viscere e traumi compresi, con sanguinaria sincerità, ma stavolta alcune liriche, per esempio quelle di un apocrifo degli U2 della fase "americana" intitolato I Am Not My Father (sul tormentato rapporto con la figura paterna non aveva detto tutto, e con ben altra intensità, la Shadow In The Window di Willow Springs?), tradiscono una ripetitività evidenziata pure dalla scelta di riarrangiare qualche vecchia canzone in nuove e sospirose parafrasi, utili forse a ribadire l’efficienza professionale della moglie Heather Lynne Horton (ascoltatene il controcanto perfetto sulla rarefatta Hey La Hey #23) benché piuttosto discutibili sul piano dell’urgenza espressiva.

Almeno nel folk-rock "trascendentale", atmosferico e magnificamente eseguito di Gonna Rise Up e della stessa Lighthouse On The Shore, McDermott riesce ancora a suonare come un credibile (e neanche troppo derivativo) epigono statunitense degli amati Van Morrison e Mike Scott; proprio per questo, quindi, non si capisce per quale ragione tracce di simile caratura siano state infilate a forza in una sequenza dove si trovano anche Where God Never Goes, Grateful o Count Your Blessings, quel genere di ballate autunnali e introspettive, alla Del Amitri degli esordi, che il nostro ha già cantato mille volte e con immedesimazione assolutamente imparagonabile.

Lo stesso discorso vale anche per il sommario di un East Jesus - il gemello rumoroso - parimenti altalenante, al cui interno si ha talvolta l’impressione di trovare la rabbia, la foga e i toni brucianti del primo McDermott, però penalizzati da una produzione e da sonorità così raccogliticce da ricordare in più di un’occasione il discount dell’epica e del melodramma sovente frequentato dagli Alarm di Mike Peters. Più delle strombazzate Berlin At Night e A Head Full Of Rain, entrambe troppo poppeggianti per convincere appieno, e tralasciando il r’n’r di grana grossa di una Lost Paradise dalle sfumature quasi glam, a indurre approvazione sono, su tutto, la sfrigolante elettricità di una Behind The Eight in forma di lettera aperta all’Holden Caulfield di J.D. Salinger (per contro, l’identificazione con l’omonimo personaggio dei Peanuts della malinconica Charlie Brown indugia eccessivamente nel piagnisteo autoconsolatorio), l’onirica narrazione folkie su paesaggi, volti e scenari della felliniana The Circus e l’epos pianistico finalmente senza freni o cinture di sicurezza dell’ultima Whose Life I’m Living.

Un trittico che non solo conferma le virtù di McDermott in qualità di autore e lettore (sarebbe interessante capire quanti siano in grado, tra i più giovani, di decodificare le citazioni dall’eponimo autore di fantascienza contenute nella Bradbury Daydream di Lighthouse On The Shore), ma ne accresce la statura di continuatore quasi "sciamanico" dello stile confessionale appartenuto a numerosi giganti del rock al momento tragicamente privi di successori attendibili. Ma di questo, in tutta sincerità, saremmo stati al corrente anche se East Jesus e Lighthouse On The Shore non avessero mai visto la luce.

E siccome nell’opus di McDermott le opere intente a raccontare una storia che conosciamo fin troppo bene rischiano ormai di sopravanzare gli episodi più coraggiosi e innovativi, non possiamo fare altro, volendogli bene, se non suggerirgli di mandare a quel paese le certezze del presente e della sua striminzita ma fedelissima cerchia di estimatori per tentare un rigenerante salto nel buio. In fondo, per chi in passato è sopravvissuto a un naufragio esistenziale consumatosi "da Chicago all’orto del Getsemani", non dovrebbe poi trattarsi di un’opzione così temeraria.


    



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