I contorni della vicenda artistica dei Rusties cominciano a farsi più chiari:
chiudevamo la recensione del precedente Dalla
polvere e dal fuoco con l'idea che ci fosse una imminente svolta
nel percorso della band bergamasca, che quel disco, interamente composto da cover
"tradotte" in lingua italiana, fosse un passaggio, una sorta di premessa ad una
seconda parte della loro carriera. Dove osano i rapaci chiarisce
il coraggioso salto dei Rusties attraverso undici episodi originali che scelgono
definitivamente l'espressione del rock in lingua madre, rappresentando uno spartiacque
nella loro produzione. Non è una cesura musicale, perché, come vedremo, tutte
le caratteristiche sonore della band sono ancora presenti, così come sono evidenti
le ispirazioni da cui attinge il sound del gruppo, ma il confronto con la scrittura
in italiano sposta sensibilmente le forme e la struttura delle composizioni.
Nell'insieme
pare che i Rusties siano riusciti a superare l'ostacolo con l'esperienza ormai
ventennale della formazione, formata da Marco Grompi a Osvaldo Ardenghi, da qualche
tempo stabilizzatasi nella line up a cinque con il basso di Fulvio Monieri, le
tastiere di Massimo piccinelli e la batteria di Filippo Acquaviva. Le fondamenta
sono ben salde nel rock imbizzarrito e rugginoso di Neil Young, da cui partirono
come interpreti (e mai hanno abbandonato tale terreno, visto il recente spettacolo,
fra canzone e recital, di 'Waterface', dedicato alla trilogia oscura dello Young
di metà anni settanta), ma il presente è fatto di un rock dalla sensibilità civile
e dai tratti introspettivi a seconda dei casi, che pesca a piene mani fra suggestioni
lontane e completamente fuori moda rispetto alla stessa scena contemporanea.
Dove
osano i rapaci ha il merito insomma di non mimare l'indie rock incolore di
oggi, ma di collegarsi semmai a una tradizione che fra canzone d'autore, blues
dal sapore progressivo, divagazioni elettriche ed echi West Coast colloca i Rusties
fra passato e presente. Lo si intuisce nel suono, che potremmo definire "classico"
ma non per forza nostalgico, a cui il gruppo ha dato forma in Non
Tornerà, Pezzo di carta o Non
lontano molto tempo fa. C'è un gusto estetico e sonoro che affonda a piene
mani in una precisa stagione musicale, ma c'è anche una parte lirica importante
che mischia saracasmo pungente, disillusioni e speranze tradite di una generazione,
nel fotografare la società italiana di oggi. A volte la lingua si fa teatrale,
qualche rima appare un po' forzata, alcune immagini troppo sfumate, ma il connubio
fra musica e parole regge il compito che si erano prefissati i Rusties, cominciando
dal manifesto di Dove osano i rapaci, title
track che ondeggia tra incalzanti chitarre bluesy, melodia rock settantesca e
un avvolgente organo in sottofondo.
La novità è anche rappresentata dall'aspetto
più corale dell'album, con le voci di Osvaldo Ardenghi e Fulvio Monieri protagoniste
al fianco di Marco Grompi, in un avvicendamento di interpretazioni, che non abbandona
certo gli echi familiari dell'amata West Coast di un David Crosby (Come Planare,
Eclissi, il finale con
Magari un motivo) e naturalmente del padre putativo Neil Young (palese
in Queste tracce), ma si apre ai tratti d'autore
di Un uomo onesto e persino a trame pop beatlesiane (un'impressione dettata
da quella chitarra "alla George Harrison" in apertura) in Spirituale.
La produzione tiene insieme il tutto rispettando le qualità delle canzoni e lasciando
il doveroso spazio alle improvvisazioni strumentali dei Rusties, una band che
per sua natura, nella dimensione dal vivo, riuscirà ad ampliare ulteriormente
le sensazioni del disco.