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Billy Bragg
The Roaring Forty 1983-2023

- a cura di Gianfranco Callieri -

È come sempre difficile spiegare a chi non c’era e ha percorso altre traiettorie (magari per banalissime ragioni generazionali) con quale affetto, idealismo e speranza fosse seguito, negli anni ’80, un musicista come Stephen William Bragg, per tutti, più semplicemente, Billy Bragg. Il legame che ci univa a Billy «il rosso», oltre alla comune militanza politica, era di natura, per così dire, sentimentale: come lui amavamo e rispettavamo il folk-rock di Bob Dylan, o di Simon & Garfunkel, ma da giovani le stropicciate nevrosi di Elvis Costello o Graham Parker, il loro sembrare appena usciti da un negozio di vestiti di seconda mano dove spinassero anche qualche birra, ci avevano in un primo momento colpito di più; là dove i Clash, poi, con secchiate di ardore e con l’abitudine di puntare, sulla mappa del mondo, posti che nemmeno sapevamo esistessero, ci avevano letteralmente scoperchiato il cervello.

Billy era simile a noi, vestiva come noi, potevamo toccarlo e persino parlargli. Quando venne in Italia nella seconda metà degli ’80, facendo il giro delle sette chiese nelle Feste dell’Unità nazionali, gli organizzatori mandarono in stampa delle locandine in b/n in cui il nostro, chitarra in spalla e Stetson sulla nuca, giocava con l’immagine di James Dean in Il Gigante, e allora ce lo immaginammo più avvenente del previsto finché trovandocelo davanti — slavato, nasuto, senza spalle e con la bocca troppo grande — non lo vedemmo esattamente com’era, e cioè anonimo e ordinario proprio com’eravamo (e siamo) noi. E come noi, durante stagioni nelle quali l’attivismo di sinistra era ancora una cosa seria, ci si scannava persino sul presunto marxismo degli Housemartins e la dissoluzione del muro di Berlino sembrava un’ipotesi lontanissima dalla realtà, Billy s’indignava, si arrabbiava, s’inalberava e si addolciva, infilando tutti i sentimenti e le sensazioni possibili in canzoni folk appuntite, elettriche, trasognate, capaci di parlare della società (sovente stigmatizzandone il cinismo) e di parlare dritto al nostro cuore.

Nell’epoca in cui la bass culture del giamaicano Linton Kwesi Johnson arrivava da noi grazie all’ospitalità fornita dai circoli del PCI, mentre i film di Mike Leigh, di David Leland o di Ken Loach (ma anche del primo Michael Radford o del primo Stephen Frears) iniziavano a dare, dell’Inghilterra proletaria, un’immagine assai meno efficientista e molto più amara e disperata di quella proposta dal primo ministro Margaret Tatcher, nel tempo in cui la sinistra europea iniziava a ingannarsi su qualsiasi battaglia di bandiera (tremenda la cantonata presa sostenendo i macellai argentini da operetta del generale Leopoldo Galtieri nel loro tentativo di sottrarre le isole Falklands alla sovranità del Regno Unito) ma sopravviveva, sacrosanto, il concetto di internazionalismo, allora Billy Bragg, con le sue ballate tristi e solitarie, annerite dalla fuliggine delle ciminiere, intirizzite dall’umidità dei docks industriali, smarrite nelle strade tutte uguali dei vicoli di periferia, tra un caseggiato a due piani e una sala del bingo, composte aspettando una ragazza ritardataria o cercando di dare dignità a una famiglia in attesa dell’assegno di disoccupazione, era il nostro working class hero.

La citata "Lady di ferro" - la "boccaccia" intenta a dirne un’altra delle sue nella Bigmouth Strikes Again degli Smiths - faceva di tutto per distruggere il welfare nella nazione che l’aveva inventato e Billy le rispondeva per le rime, con suoni e strofe per le nostre orecchie più coerenti, sferzanti e intense di quelle, poniamo, di Jimmy Sommerville dei Communards o di Paul Weller all’epoca degli Style Council, tanto per citare due colleghi unitisi a lui nel cartellone di Red Wedge, l’organizzazione di musicisti nata nel 1985 con la volontà di sensibilizzare gli inglesi sull’opportunità di evitare una terza vittoria consecutiva dei conservatori alle elezioni politiche del 1987. Sebbene gruppi di ultra-sinistra come i Redskins avessero polemizzato aspramente contro Red Wedge e le loro obiezioni sembrassero per nulla peregrine (tant’è che nel 1987 i tories vinsero ancora in souplesse), la simpatia verso Billy e l’umanità da lui manifestata erano così evidenti da scacciare all’istante ogni residua perplessità e rasserenare ogni senso di precarietà («Primo turno, lunedì, sei di mattina, Sesto San Giovanni / Billy Bragg che canta nella nebbia consola i tuoi trent’anni» avrebbero detto di lì a poco i Gang, citando indirettamente la Levi Stubb’s Tears dell’autore).

Dopo il 1989, con tutto quel che ne è conseguito, il messaggio di Billy si è fatto più intimista (ancorché meno intimo nelle sonorità), più sbilanciato sulle tragedie di migranti e rifugiati, occupato a spiegare la necessità di un «socialismo del cuore»; salvo a un certo punto, in concomitanza con i dieci, disastrosi anni del New Labour propugnato da Tony Blair, guardare soprattutto negli Stati Uniti, alla ricerca di amicizie e numi tutelari utili a non farsi sopraffare dall’ennesimo cupio dissolvi della sinistra allora in atto nel suo paese. A un certo punto, inevitabilmente dati gli anni di permanenza sulle scene, anche Billy Il Rosso è diventato un classico, magari minore ma pur sempre classico, coccolato dalla stampa e seguito ovunque, e a qualsiasi prezzo, dai suoi non illimitati ma fedelissimi ascoltatori. Infatti anche lui, com’è diventata deprecabile abitudine di chiunque non campi con i proventi dello streaming (cioè quasi tutti), si è messo a usare il proprio sito web alla stregua di un concessionario dov’è possibile acquistare qualsiasi cosa, vinili colorati e audiocassette in tiratura limitata, poster firmati, altrettanto scarabocchiate (nonché costosissime) prove di stampa a 12” e i temibili bundle con diverse edizioni dello stesso disco.

www.billybragg.co.uk

Risponde a questa logica di mungitura dei convertiti pure questo The Roaring Forty 1983-2023 (Cooking Vinyl 2023), retrospettiva sulla carriera che esce in 2 CD (troppo pochi), 1 LP arancione (più succinto ancora), 3 LP verdi (stesso contenuto del doppio CD, ma questi vinili colorati di nuova fabbricazione hanno, in genere, una qualità audio alquanto discutibile) e una mostruosa configurazione da 14 CD con l’ambizione di assemblare l’intera produzione discografica dell’artista, escludendo i live (non tutti) e nondimeno disseminando i vari dischetti di rarità assortite, materiale in precedenza disponibile solo attraverso i servizi digitali, extended e singoli rarissimi. La pretesa completezza dell’operazione, però, si scontra con alcune scelte inspiegabili, come quella di inserire tutto il trittico dei Mermaid Avenue - gli album basati su testi inediti di Woody Guthrie e realizzati con i Wilco nella seconda metà dei ’90 - ma in versione chissà perché non integrale, arricchita sì da rarità assortite ma ancora una volta immemore dei demo (peraltro cantati dal solo Bragg quindi non complicati da liberare, suppongo, in termini di diritto d’autore) abbinati alla VHS di Man In The Sand, documentario sulla lavorazione di quei dischi, nel 1999.

Inoltre, se consideriamo come nel 2006 la stessa Cooking Vinyl avesse già pubblicato non uno ma due cofanetti inerenti alla produzione di Billy Bragg, ristampandone poi ogni singolo lavoro in versione "espansa" e imbottita con ogni sorta di ben di Dio (sonoro), si può ben capire che il repertorio veramente inedito di The Roaring Forty 1983-2023 riguardi in pratica solo l’ultimo quindicennio di attività del suo titolare, al tirar delle somme (e fatta la tara a quanto era già in precedenza disponibile come download gratuito) qualche brano dal vivo con Joe Henry, un po’ di remake in chiave reggae e ska, (quasi) tutto il quattordicesimo e ultimo CD. Perché, quindi, un altro e faraonico box-set, perché (in generale) una miseria di inediti o un po’ di ordine fatto tra i formati minori di una discografia quarantennale per irretire gli estimatori, perché girare sempre intorno alle stesse cose, perché a farlo (di tutti i possibili rèprobi!) è anche il nostro amico Billy Bragg?

Be’, ovviamente Dio è morto, Marx pure, nessuno di noi si sente troppo bene, globalismo e internet hanno sbriciolato le ideologie, tutti hanno smesso di fumare (tranne chi scrive) e l’industria discografica si è accartocciata su se stessa, consentendo a musicisti medio-vendenti come Billy di disintermediare il rapporto col proprio pubblico, è vero, ma al prezzo di una continua sovrapproduzione di cianfrusaglie per appassionati allo stadio terminale. Billy si è semplicemente adeguato al paradigma generale, surrogando la totale estinzione degli acquirenti occasionali - quelli che garantivano l’equilibrio tra i vari tipi di consumo, oggi completamente evaporati nelle spire predittive dell’algoritmo - a colpi di vinili colorati, autografi, edizioni limitate e antologie di ogni genere (anche ben riuscite, come la doppia Best Of Billy Bragg At The BBC 1983-2019 di quattro anni or sono, qui non inclusa se non per qualche assaggio). Così fan tutti, insomma, e perché non dovrebbe farlo anche Billy Il Rosso, e perché dovremmo, noi, censurare le sue scelte in materia (forse ascoltarne le ultime cose con un po’ più di freddezza, quello sì)?

Vediamo, allora, cosa ci dice sulla parabola di questo comunque splendido sessantacinquenne inglese The Roaring Forty 1983-2023. Innanzitutto, che il suo noviziato, come dimostrano la struggentissima The Milkman Of Human Kindness e l’inno socialista A New England del primo Life’s A Riot With Spy Vs. Spy (1983), in pratica un mini da 15 minuti, era già maturo e perfettamente formato malgrado l’austerità (e l’originalità) di un formato per sola voce e sei corde elettrica, replicato anche (in massima parte) nel successivo Brewing Up With… (1984) e portato allo stato dell’arte nel terzo Talking With The Taxman About Poetry (1986), con un titolo ripreso dal poeta russo Vladimir Majakovskij, arrangiamenti ugualmente scarni nonostante la saltuaria presenza di trombe, pianoforti, percussioni e slide, Johnny Marr degli Smiths a disegnare la malinconica dichiarazione d’amore di Greetings To The New Brunette, lo straziante ritratto di una solitudine riempita soltanto dalla musica di Levi Stubb’s Tears, l’odissea populista di The Home Front, la serenata sindacale di There’s A Power In Our Union.

Tutto, e sottolineo tutto, il materiale di contorno, è preso pari pari dalle citate ristampe del 2006 (nel caso del primo album, anche dalla famigerata Anniversary Edition del 2013), a parte una bellissima Walk Away Renée dei Left Banke, a suo tempo uscita a 45 giri, e la Scholarship Is The Enemy Of Romance di Days Like These, raro extended del 1985 (tutto materiale in ogni caso recuperato, insieme a molte altre curiosità, nell’antologico Reaching To The Converted del 1999). Poi c’è Workers Playtime (1988), che pur criticato e sminuito fu un ottimo disco rock (Joe Boyd in cabina di regia) pieno di grandi canzoni come Must I Paint You A Picture, Valentine’s Day Is Over o She’s Got A New Spell, e incorniciato da almeno un piccolo capolavoro, l’ultima e corale Waiting For The Great Leap Forwards, con Martin Belmont dei Rumour alla sei corde, Michelle Shocked all’accompagnamento vocale e un titolo derivante dai discorsi di Mao Tse-Tung; qui gli extra sono leggermente diversi da quelli del 2006, perché spunta anche una pleonastica She’s Leaving Home dei Beatles, ma si tratta di differenze minuscole.

Tornano invece a essere identici i contenuti supplementari di The Internationale (1990), raccolta di canzoni politiche graziosa ma non indispensabile, che nel fatidico 2006 era però stata adornata anche da un DVD con 20 brani dal vivo (tutti a suo tempo immortalati in paesi comunisti) qui sparito dal conteggio e sostituito da tre canzoni live, in Canada, e dalla Seven And Seven Is dei Love apparsa su Rubáiyát (1990), celebrazione del quarantesimo compleanno dell’etichetta Elektra. Don’t Try This At Home (1991) è, secondo il mio minoritario parere, l’opera più bella, emozionante e umana di Billy Il Rosso; è anche il suo disco più sottovalutato, perché lungo, riccamente arrangiato con spirito classic-rock, pieno di ospiti (dai R.E.M. a Johnny Marr) e strumenti. Si tratta della fotografia post-ideologica di un uomo adulto alla ricerca di nuove certezze dopo la disgregazione di vecchi ideali e antiche comunità, del percorso di un essere umano alla ricerca di nuovi significati da trovare, di volta in volta, nel rock’n’roll (North Sea Bubble), in un pop indiavolato e brillantissimo (Accident Waiting To Happen, Sexuality), in ballate d’inusitata delicatezza (c’è una Wish You Were Her dove sembra di ascoltare i Prefab Sprout prima maniera), in altri repertori (Dolphins, da Fred Neil, o Everywhere, da Sid Griffin e Greg Trooper), nel ricordo del padre scomparso dieci anni prima (Tank Park Salute, devastante), nell’impennarsi elettrico di qualche frustata post-punk (Body Of Water, non a caso prodotta, come tutto l’album, dal Grant Showbiz già al servizio dei Fall di Mark E. Smith).

Stavolta mancano buona parte degli inediti della prima ristampa, comprese quindi la Just One Victory di Todd Rundgren e soprattutto la meravigliosa versione di Trust per trombe e sassofoni, ma ci sono i due EP You Woke Up My Neighborhood (1991) e Accident Waiting To Happen (1992), ennesime testimonianze di una glasnost’ del cuore che non avrà gli stessi esiti in William Bloke (1996), esercizio di stile (e non era mai successo prima) atteso cinque anni eppure singolarmente privo di guizzi, poesia e ispirazione; altresì appiccicato a una sverniciatura manierista evidentissima pure nelle sette outtakes di Bloke On Bloke (1997), dato alle stampe per festeggiare l’ascesa di Tony Blair dopo anni di strapotere conservatore, in un’apoteosi di entusiasmo della quale lo stesso Billy finirà per pentirsi. In The Roaring Forty 1983-2023, i contenuti bonus di William Bloke vengono quasi azzerati (ma in tutta sincerità non è una gran perdita) per concentrarsi su un’altra perestrojka, quella dei citati Mermaid Avenue messi in cantiere, assieme a Wilco e Natalie Merchant, al di là dell’oceano, recanti tutt’altra vena compositiva (in particolar modo il primo dei tre volumi) e qui condensati in un unico CD cui si aggiungono, più avanti, alcune propaggini dal vivo (non musicate da Jeff Tweedy e soci, però, bensì con i Blokes, comunque dignitosi alle prese con una versione latineggiante, sia nei suoni sia nelle liriche, di California Stars).

Per arrivare a quei brani, bisogna però passare attraverso il pasticcio di England, Half English (2002), nobilissimo sotto il profilo delle cause antirazziste ma assai confusionario dal punto di vista delle sonorità, disorientate e divaganti come lo erano gli elettori laburisti nel vedere dispiegarsi la raccapricciante "terza via" blairiana, e dopo proseguire con i lavori sempre più sfocati degli ultimi anni, dagli anonimi Mr. Love & Justice (2008) e Tooth & Nail (2013) alle canzoni "di protesta" (non troppo stentorea, in verità) del più vivace Fight Songs (2011), passando per il reggae scolastico di Six Songs From Pressure Drop (2010). Meriterebbe tutt’altra considerazione il progetto Shine A Light (2016), realizzato a quattro mani con Joe Henry, dedicato alla mitologia delle ferrovie americane e qui condito con tre pietanze dal vivo mai assaggiate prima, ma le parole d’elogio più sincero vanno spese per l’extended successivo, Bridges Not Walls (2017), depositario della più bella canzone scritta da Billy Il Rosso negli ultimi trent’anni, e cioè il lamento funebre per voce e pianoforte di Full English Brexit, eulogia britannica a sorpresa assai comprensiva con le paure nutrite dai leavers (spesso angosciati, e non a torto, da un’Europa eccessivamente omologante) ancorché partorita dal punto di vista di chi non intende rassegnarsi alle spinte isolazioniste della destra.

Ecumenico ma non salomonico, sofferente ma non domo, il Billy Bragg di The Million Things That Never Happened (2021) si presenta tuttavia autunnale e patinato, alla ricerca di un modo per parlare dell’attualità - la cultura woke, lo sfarinarsi delle democrazie, la sfiducia verso la scienza - ma senza più il mordente, l’estro e la visione per incidere sul contemporaneo al di là delle cadenze di un alt-folk già sentito mille volte (e sull’energica Ten Mysterious Photos That Can’t Be Explained, scritta con il figlio Jack Valero e indirizzata agli astratti furori degli antivaccinisti, ci sarebbe molto da discutere). In fondo al percorso c’è un quattordicesimo CD dove Billy Il Rosso fa il jukebox umano, macinando di tutto un po’, i Rolling Stones (Salt Of The Earth) e i Verve (The Drugs Don’t Work), i Buzzcocks (Ever Fallen In Love) e Bob Dylan (When The Ship Comes In, Tonight I’ll Be Staying Here With You), persino Merle Haggard (If We Make It Through December, con Joe Henry); il risultato, in ogni caso, raramente trascende la dimensione del puro divertissement, sebbene confezionato (sovente dal vivo) con tutti i crismi.

Insomma, anche se è impossibile scacciare Billy dagli oblast’ della nostra anima, resta da capire a chi si rivolga questo The Roaring Forty 1983-2023, introduzione al personaggio troppo costosa per i neofiti e troppo avara di novità per i seguaci incalliti (ai quali toccherebbe un esborso esagerato a fronte di uno o due dischetti di tracce in effetti mai sentite prima), casualmente ma non troppo sbarcata sul mercato quando gli U2, ai loro tempi vissuti da molti con lo stesso trasporto idealista riservato a Bragg, hanno appena inaugurato la loro residency allo Sphere di Las Vegas, sancendo così il divorzio definitivo (già consumatosi da tempo, eppure ogni volta traumatico) dai sogni, dalle terre promesse, dai miraggi di una generazione. Forse il box, e di riflesso più o meno tutta la produzione più recente di Billy Il Rosso, parla proprio ai suoi estimatori di vecchia data. A chi è cresciuto, si è impegnato, ha votato con lui. Non per svuotargli le tasche, ci mancherebbe. Per dire a tutti i compagni, con la solita benevolenza, che se un tempo abbiamo coltivato l’utopia, essa si è nutrita e continua a nutrirsi di giovinezza. E giovani, in questo tempo inafferrabile la cui realtà si vorrebbe soltanto fuggire, non lo siamo più. Le nostre radici restano: e in mezzo a loro, malgrado nessuno si aspetti ancora un «grande balzo in avanti», resta il sorriso triste di Billy Bragg
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