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Billy
Bragg - a cura di Gianfranco Callieri -
È come
sempre difficile spiegare a chi non c’era e ha percorso altre
traiettorie (magari per banalissime ragioni generazionali)
con quale affetto, idealismo e speranza fosse seguito, negli
anni ’80, un musicista come Stephen William Bragg, per tutti,
più semplicemente, Billy Bragg. Il legame che ci univa
a Billy «il rosso», oltre alla comune militanza politica,
era di natura, per così dire, sentimentale: come lui amavamo
e rispettavamo il folk-rock di Bob Dylan, o di Simon & Garfunkel,
ma da giovani le stropicciate nevrosi di Elvis Costello o
Graham Parker, il loro sembrare appena usciti da un negozio
di vestiti di seconda mano dove spinassero anche qualche birra,
ci avevano in un primo momento colpito di più; là dove i Clash,
poi, con secchiate di ardore e con l’abitudine di puntare,
sulla mappa del mondo, posti che nemmeno sapevamo esistessero,
ci avevano letteralmente scoperchiato il cervello.
Nell’epoca in cui la bass culture del giamaicano Linton Kwesi
Johnson arrivava da noi grazie all’ospitalità fornita dai
circoli del PCI, mentre i film di Mike Leigh, di David Leland
o di Ken Loach (ma anche del primo Michael Radford o del primo
Stephen Frears) iniziavano a dare, dell’Inghilterra proletaria,
un’immagine assai meno efficientista e molto più amara e disperata
di quella proposta dal primo ministro Margaret Tatcher, nel
tempo in cui la sinistra europea iniziava a ingannarsi su
qualsiasi battaglia di bandiera (tremenda la cantonata presa
sostenendo i macellai argentini da operetta del generale Leopoldo
Galtieri nel loro tentativo di sottrarre le isole Falklands
alla sovranità del Regno Unito) ma sopravviveva, sacrosanto,
il concetto di internazionalismo, allora Billy Bragg,
con le sue ballate tristi e solitarie, annerite dalla fuliggine
delle ciminiere, intirizzite dall’umidità dei docks industriali,
smarrite nelle strade tutte uguali dei vicoli di periferia,
tra un caseggiato a due piani e una sala del bingo, composte
aspettando una ragazza ritardataria o cercando di dare dignità
a una famiglia in attesa dell’assegno di disoccupazione, era
il nostro working class hero.
Risponde a questa logica di mungitura dei convertiti pure
questo The Roaring Forty 1983-2023 (Cooking
Vinyl 2023), retrospettiva sulla carriera che esce in 2 CD
(troppo pochi), 1 LP arancione (più succinto ancora), 3 LP
verdi (stesso contenuto del doppio CD, ma questi vinili colorati
di nuova fabbricazione hanno, in genere, una qualità audio
alquanto discutibile) e una mostruosa configurazione da 14
CD con l’ambizione di assemblare l’intera produzione discografica
dell’artista, escludendo i live (non tutti) e nondimeno disseminando
i vari dischetti di rarità assortite, materiale in precedenza
disponibile solo attraverso i servizi digitali, extended e
singoli rarissimi. La pretesa completezza dell’operazione,
però, si scontra con alcune scelte inspiegabili, come quella
di inserire tutto il trittico dei Mermaid Avenue
- gli album basati su testi inediti di Woody Guthrie e realizzati
con i Wilco nella seconda metà dei ’90 - ma in versione chissà
perché non integrale, arricchita sì da rarità assortite ma
ancora una volta immemore dei demo (peraltro cantati dal solo
Bragg quindi non complicati da liberare, suppongo, in termini
di diritto d’autore) abbinati alla VHS di Man In The Sand,
documentario sulla lavorazione di quei dischi, nel 1999.
Vediamo, allora, cosa ci dice sulla parabola di questo comunque
splendido sessantacinquenne inglese The Roaring Forty
1983-2023. Innanzitutto, che il suo noviziato, come
dimostrano la struggentissima The Milkman Of Human Kindness
e l’inno socialista A New England del primo Life’s
A Riot With Spy Vs. Spy (1983), in pratica un mini da
15 minuti, era già maturo e perfettamente formato malgrado
l’austerità (e l’originalità) di un formato per sola voce
e sei corde elettrica, replicato anche (in massima parte)
nel successivo Brewing Up With… (1984) e portato allo
stato dell’arte nel terzo Talking With The Taxman About
Poetry (1986), con un titolo ripreso dal poeta russo Vladimir
Majakovskij, arrangiamenti ugualmente scarni nonostante la
saltuaria presenza di trombe, pianoforti, percussioni e slide,
Johnny Marr degli Smiths a disegnare la malinconica dichiarazione
d’amore di Greetings To The New Brunette, lo straziante
ritratto di una solitudine riempita soltanto dalla musica
di Levi Stubb’s Tears, l’odissea populista di The
Home Front, la serenata sindacale di There’s A Power
In Our Union.
Stavolta mancano buona parte degli inediti della prima ristampa,
comprese quindi la Just One Victory di Todd Rundgren
e soprattutto la meravigliosa versione di Trust per
trombe e sassofoni, ma ci sono i due EP You Woke Up My
Neighborhood (1991) e Accident Waiting To Happen
(1992), ennesime testimonianze di una glasnost’ del cuore
che non avrà gli stessi esiti in William Bloke (1996),
esercizio di stile (e non era mai successo prima) atteso cinque
anni eppure singolarmente privo di guizzi, poesia e ispirazione;
altresì appiccicato a una sverniciatura manierista evidentissima
pure nelle sette outtakes di Bloke On Bloke (1997),
dato alle stampe per festeggiare l’ascesa di Tony Blair dopo
anni di strapotere conservatore, in un’apoteosi di entusiasmo
della quale lo stesso Billy finirà per pentirsi. In The
Roaring Forty 1983-2023, i contenuti bonus di William
Bloke vengono quasi azzerati (ma in tutta sincerità non
è una gran perdita) per concentrarsi su un’altra perestrojka,
quella dei citati Mermaid Avenue messi in cantiere,
assieme a Wilco e Natalie Merchant, al di là dell’oceano,
recanti tutt’altra vena compositiva (in particolar modo il
primo dei tre volumi) e qui condensati in un unico CD cui
si aggiungono, più avanti, alcune propaggini dal vivo (non
musicate da Jeff Tweedy e soci, però, bensì con i Blokes,
comunque dignitosi alle prese con una versione latineggiante,
sia nei suoni sia nelle liriche, di California Stars).
Ecumenico ma non salomonico, sofferente ma non domo, il Billy
Bragg di The
Million Things That Never Happened (2021) si presenta
tuttavia autunnale e patinato, alla ricerca di un modo per
parlare dell’attualità - la cultura woke, lo sfarinarsi delle
democrazie, la sfiducia verso la scienza - ma senza più il
mordente, l’estro e la visione per incidere sul contemporaneo
al di là delle cadenze di un alt-folk già sentito mille volte
(e sull’energica Ten Mysterious Photos That Can’t Be Explained,
scritta con il figlio Jack Valero e indirizzata agli astratti
furori degli antivaccinisti, ci sarebbe molto da discutere).
In fondo al percorso c’è un quattordicesimo CD dove Billy
Il Rosso fa il jukebox umano, macinando di tutto un po’, i
Rolling Stones (Salt Of The Earth) e i Verve (The
Drugs Don’t Work), i Buzzcocks (Ever Fallen In Love)
e Bob Dylan (When The Ship Comes In, Tonight I’ll
Be Staying Here With You), persino Merle Haggard (If
We Make It Through December, con Joe Henry); il risultato,
in ogni caso, raramente trascende la dimensione del puro divertissement,
sebbene confezionato (sovente dal vivo) con tutti i crismi.
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