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The
Beat Farmers
Tales of the New West
[American Beat Records 2010]
C'erano una volta i Beat
Farmers, "avanguardia" del cosidetto rock delle radici che fu…no no, fermate
tutto, scusate, questo era l'incipit della recentissima recensione dell'album
Fulmination
dei Farmers, proprio quella in cui Fabio Cerbone piangeva sulle ceneri di una
grande band che fu, che è ancora, ma che non è più quello che era o che potrebbe
ancora essere. Invece sopra avete letto bene, qui i Farmers hanno ancora il Beat,
e non sono quelli imbolsiti e privi di sprono creativo sentiti l'anno scorso,
ma quelli che su queste pagine abbiamo già avuto modo di inserire tra i 100 dischi
da Strade Blu degli anni 80. Tales of the New West è per noi da
sempre un must have, perché è vero che se nel piccolo commento del nostro listone
presentavamo questa musica come "nient'altro che buon vecchio rock'n'roll", ma
è pur sempre vero che in queste canzoni scorrono storie che vale ancora la pena
raccontare. Ci pensa dunque l'American Beat Records, etichetta specializzata in
riesumazioni di cadaveri discografici del passato, a farci ripiombare in pieno
1985, all'apice del fervore della reaganomics e con il mondo della musica monopolizzato
dalla guerra tra new romatics inglesi da una parte e i finti rockettari americani
da radio FM dall'altra. In mezzo oggi sappiamo che c'era molto da scoprire, un
tempo lo si definiva "underground" perché al di sopra si usava strillare talmente
suoni, colori e capigliature cotonate che chi l'arte semplicemente la sussurrava,
finiva inevitabilmente sottoterra. E poi c'era il "west", o meglio,
non c'era più da tempo a dire il vero, perché il preconcetto universale che voleva
il country essere la musica ufficiale dei cowboy tutto lazo e speroni era decaduto
da tempo, con Nashville in crisi d'identità, alla ricerca disperata di un suono
che fosse sì country, ma che potesse andare bene anche ai nuovi yuppie danarosi
e pronti ad acquistare a caro prezzo quel nuovo fantasmagorico oggetto che era
il cd, e con Hollywood che aveva permesso negli anni 70 a grandi registi come
Sam Peckinpah di distruggere e dissacrare un immaginario che lei stessa aveva
creato. Per questo ancora oggi sosteniamo come più che corretta la parola "rivoluzionario"
per un disco come Tales Of The New West, perché l'Ovest raccontato
in queste canzoni era davvero nuovo, costruito in quegli anni da pochi altri (i
Rank & File e i Long Ryders sicuramente, tutti presenti anche qui in veste di
ospiti, ma anche da quello scherzo - che poi tanto scherzo non fu - che furono
i Knitters di Dave Alvin e John Doe), e ben rappresentato al cinema dall'improbabile
cowboy circense Bronco Billy, personaggio creato da un sottovalutato Clint Eastwood
(quando ancora non era creduto un grande regista) proprio per celebrare la definitiva
de-mitizzazione del mito western (e massacrato a colpi di progresso dal visionario
Michel Cimino dei Cancelli Del Cielo). I Beat Farmers nascevano da questo
spirito di umanizzazione del semidio dei pionieri banchi, ma furono i primi che
in tutto questo morire ci trovarono aspetti comici, evidenziati fin dai caratteri
usati per la copertina, degni di un film dell'orrore di serie B, dall'immagine
che riesumava camicione a quadri di fogertiana memoria, e da un approcio a canzoni
altrui che aveva sempre "quel non so che" di presa in giro, ma che finì in questo
caso per rendere al mondo le migliori versioni di Reason
To Believe di Bruce Springsteen, There She
Goes Again dei Velvet Undergound e Never Going
Back di John Stewart. Ma il disco viveva anche di brillantissime composizioni
originali, del chitarrista Buddy Blue le migliori (Lost
Weekend, Goldmine e Lonesome
Hound), dell'altro chitarrista e cantante Jerry Raney le più
classiche (Showbiz e Where
Do They Go), di un amico di precedenti avventure musicali (Paul Kamanski)
quella California Kid che scatenò (insieme
ad un'altra cover, Happy Boy) il vocione del batterista Country Dick Montana,
vero e proprio erede naturale non tanto dello scimmiottato Johnny Cash, ma del
John Belushi intento a saccheggiare Rawhide nella scena al country-pub del film
Blues Brothers (quella che forse meglio di tutte rappresenta quanto il cowboy
fosse diventato una macchietta fumettistica). Nient'altro che buon vecchio rock
and roll appunto, una rivoluzione iniziata ma mai conclusa però, con i successivi
dischi che scivolarono sempre più verso un rock di grana grossa (più da camionisti
che da cowboy), e le tragiche morti di Montana e Blue che rendono oggi impossibile
al superstite Raney una credibilità sotto il nome dei Farmers. Edizione cd ben
masterizzata ma senza le tante bonus tracks della precedente expanded edition
della Rhino per tenere il prezzo basso, comprese le stringate note di copertina
aggiunte dal curatore Gene Sculatti (storica penna di Rolling Stone). Si poteva
fare di meglio, ma intanto, per chi non c'era, c'è da riascoltarsi un grandissimo
e indimenticabile disco. (Nicola Gervasini) www.beatfarmers.com
www.myspace.com/americanbeat |