Joan
Baez Play Me Backwards
[Proper Collectors ed.
2011]
Siamo tutti bravi a fare gli
intenditori con gli artisti che conosciamo a fondo, ma quando salta fuori un nome
come Joan Baez è facile per chiunque cadere nel tranello dell'immagine
iconografica. Dici Baez e pensi al folk di protesta, alle lotte politiche e civili,
all'amore per Dylan: tutte immagini rigorosamente in bianco e nero. Ma difficilmente
parlando di lei si pensa subito alla sua musica, magari i più attenti si ricordano
di qualche album (il vendutissimo Diamond And Rust del 1975 ad esempio),
ma è innegabile che ad oggi nella memoria è rimasto più il personaggio che le
sue canzoni. Noi in passato ci siamo perlomeno ricordati di segnalarvi quello
che è forse il suo documento live più bello e completo (Ring
Them Bells del 1995 - ma ripubblicato in versione ampliata
nel 2007), ma abbiamo dimenticato di spendere qualche parola su album comunque
interessanti come Dark Chords On A Big Guitar del 2003 (con brani di Greg Brown,
Joe Henry, Natalie Merchant e Gillian Welch) e Day After Tomorrow del 2008 (prodotto
e in parte anche scritto da Steve Earle). Dischi maturi, nati per il puro piacere
dell'ascolto e non più funzionali a qualche battaglia sociale, che continuavano
una fase interessante iniziata nel 1992 con l'album Play Me Backwards,
piccola gemma dimenticata nel tempo, che viene ora ripubblicata con un cd di demo
inedite in aggiunta.
Per capire questo disco bisognerebbe andare con la
memoria al cosiddetto periodo nashvilliano dell'artista, quello che da Any Day
Now del 1968 arriva fino a Where Are You Now My Son? del 1973. In quel lasso di
tempo la Baez ha prodotto dei dischi ancora oggi godibilissimi, dove all'attenzione
sui contenuti faceva da contrappeso una cura produttiva certosina, dettata dal
fatto che le registrazioni avvenivano non più a New York negli studi della Vanguard,
ma bensì a Nashville con i professionali musicisti locali capitanati dall'esperto
produttore/bassista Norbert Putnam. Un periodo che fece storcere il naso ai puristi
del folk, che videro nella mossa una sorta di ulteriore dipendenza dalle scelte
del Bob Dylan nazional-popolare di Nashville Skyline e Self Portrait, oltre che
un cedimento alle logiche di mercato e di fruibilità radiofonica. Play Me Backwards
veniva invece dopo un periodo di crisi dell'artista, che negli anni 80 si era
concentrata più sulla vita privata, e che aveva fallito il tentativo di tenersi
al passo con i tempi con titoli ben poco memorabili come Recently del 1987 (dove
tentava una improbabile Brothers In Arms dei Dire Straits) e Speaking Of
Dreams del 1989 (qui addirittura rileggeva George Michael). Il disco segnò il
suo ritorno a Nashville, dove affidò a due professionisti del luogo (Wally Wilson
e Kenny Greenberg) il compito di darle un nuovo suono. Wilson la gelò subito dicendole
che il fatto che lei sapesse come scrivere una poesia non voleva dire che sapesse
anche come scrivere una canzone decente, e la spinse a provare a comporre e registrare
tantissimo prima di entrare in studio.
Nell'album figurano infatti brani
come la title-track, ma anche The Dream Song o
The Edge Of Glory, firmati dalla Baez con
un gusto melodico davvero inedito per lei. Il nuovo punto di riferimento artistico
era tutto nella splendida cover di Stones In The Road
di Mary Chapin-Carpenter, lei una delle recenti muse della canzone country al
femminile, la cover invece il vero e proprio highlight dell'album che oscura le
altre riletture presenti (una discreta Through Your Hands
di John Hiatt, Amsterdam di Janis Ian, Strange
Rivers di John Stewart). Interessanti comunque anche i demo abbandonati
in sede di registrazione e quindi qui presentati nella loro scarna veste acustica,
più che altro perché presentano le tante altre cover scartate dall'album, tra
cui anche l'immancabile passaggio nel mondo dylaniano con la tesa Seven
Curses. Play Me Backwards è un disco che regge il tempo
e forse un'occasione mancata di rinascita dell'artista, visto che i risultati
commerciali furono comunque modesti, e la critica nel 1992 era troppo impegnata
a seguire altri mondi musicali ben più giovani, attivi e ferventi. Ma se mai vi
foste chiesti che ne sarebbe stato della Baez senza le sue lotte da attivista,
la risposta è tutta qui: sarebbe stata un'ottima e semplicissima country-singer. (Nicola Gervasini)