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Charlie Musselwhite
Mississippi Son
[Alligator/ IRD 2022]

Sulla rete: charliemusselwhite.com

File Under: good ol' blues


di Roberto Giuli (15/06/2022)

Non è una questione puramente anagrafica, almeno non solo; troppo facile e riduttivo per motivare la natura intima di una musica come quella contenuta in Mississippi Son. Personaggi come Charlie Musselwhite non hanno bisogno di troppe analisi, come afferma egli stesso “è solo la parte istintiva di noi”; essi, per dirla come qualche press-editor del tempo che fu, “hanno suonato con tutti e visto di tutto, intrattenuto le platee delle arene e quelle risicate dei bar, capaci di fare quattro chiacchiere nei backstage dei blues festival più remoti, mai atteggiati a rock star, ma rispettati da tutti”. Giocoforza, un disco come questo (il discorso potrebbe valere per diversi tasselli del suo corposo catalogo) si discosta parecchio dalla produzione media del panorama blues, senza volersi immergere in sterili classifiche. A Charlie e a quelli come lui dunque, il compito di esprimere un genere lontano, distante anche da quella proverbiale “epoca di mezzo” urbana e fragorosa, che poi è l’epoca del nostro eroe; agli altri quello di interpretare o re-interpretare, al di la dei risultati, qualche volta non molto oltre la semplice cartolina.

Ci siamo lasciati avvincere da Charlie Musselwhite fin dall’inizio della sua carriera, da Stand Back e per tutto il periodo in cui “le dodici battute le trovavi nei campus e il blues lo salvavano i figli dei fiori” (cit. da un’intervista); siamo restati definitivamente affascinati da quello che ha fatto negli ultimi decenni, dischi come Continental Drifter, Sanctuary, Delta Hardware, The Well, o il più recente No Mercy In This Land, con Ben Harper. Cose lontane nel tempo dicevamo; eppure si sente costante il tocco dello sperimentatore puro, quel che di originalità assoluta che non riguarda solo le improbabili posizioni delle armoniche che usa; si sente quel “magic touch” anche quando alle prese con qualcosa come la hookeriana Hobo Blues. Anche stavolta l’uomo di Kosciusko, Mississippi, scrive un capitolo bellissimo, con la complicità di pochi e scelti comprimari, Barry Bays al basso e Ricky Martin alla batteria; come sempre più di sempre, poco significa la distinzione tra originali e “cover” (ma che termine inadatto), dato che gli uni e le altre si fondono come in un lungo poema.

Dalla distesa e lucida Blues Up The River (“I Won’t drink muddy water ‘til I’ve had enough”), alla minuziosa Stingaree, percossa alla maniera proprio di John Lee con fraseggio di armonica e chitarra all’unisono, fino alla menzionata “hobo”; è tutto un universo personale e collettivo dove trovano spazio Remember Big Joe e Crawling King Snake (la cui scrittura appartiene alla notte dei tempi), sentito omaggio al maestro Big Joe Williams, l’aspra Pea Vine Blues di Charlie Patton, la malinconica When The Frisco Left The Shade o la risolutiva The Dark (Guy Clark), se non la magnifica Darkest Hour: stavolta Musselwhite rilegge Musselwhite. Quattordici, splendide tracce, capitanate da quella Drifting From Town To Town che sembra voler ribadire “vai, portami amico dove suonano del buon blues”. Possibilmente da non perdere.


    


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