The
Felice Brothers
Yonder is the Clock
[Team
Love 2009]
"La tua jazz-band ha perso il suo swing, la rivoluzione ha perso il suo
ring, e quando tutto il tuo amore è stato una bugia, quello è il giorno
della grande sorpresa". Bum! Knock-out. E va bene: ci arrendiamo. Stavolta
vincono i Felice Brothers: la grande sorpresa l'hanno fatta loro
a noi, e fine della partita. Per vocazione e "mission" Rootshighway avrebbe
potuto portarli in un palmo di mano fin dal loro Tonight
At The Arizona del 2007, o perlomeno in occasione del successivo
acclamatissimo album omonimo.
Eppure, se consultate il nostro archivio, ci scoprirete prudenti e guardinghi
dichiarare che " si resta con il dubbio, già espresso in Tonight at the
Arizona, se i Felice Brothers ci siano o ci facciano (…). Al prossimo
turno stabilire se hanno spalle larghe e sufficiente ispirazione per portare
oltre queste intuizioni". Il turno in questione si chiama Yonder
Is The Clock, espressione rubata a Mark Twain (giusto per ribadire
ancora un volta la propria appartenenza culturale), e stavolta è arrivata
la conferma che aspettavamo.
Il nostro problema era in fondo quello di aver paura di amarli troppo:
loro nei panni della nuova Band degli anni 2000 sono infatti fin troppo
perfetti per essere veri, con un'immagine e una biografia così inconfondibilmente
"roots", da puzzare di sapiente costruzione fatta a tavolino. Per cui
bene così, arriviamo forse tardi a promuoverli sul campo rispetto ad altri
strilloni di "next big thing", ma quando dobbiamo sceglierci delle giovani
guide spirituali, preferiamo sempre non inciampare nella frettolosa beatificazione
dei nuovi fenomeni. Anche perché di miracoli non se ne fanno più neanche
qui, e Yonder Is The Clock non sarà il nuovo No Depression che qualcuno
ancora si ostina a cercare. Ma di grandi canzoni, per fortuna, ne è pieno
questo disco come il mondo, e i fratelli Simone, Ian and James Felice
semplicemente stanno dimostrando cosa vuol dire scrivere "storie d'amore,
morte, tradimenti, baseball, stazioni, fantasmi, epidemie, celle carcerarie,
fiumi rombanti e fredde serate invernali" senza scadere troppo nell'iconografia
di un immaginario musical-letterario ultra-rodato.
L'album vive essenzialmente di due anime: la migliore resta quella malinconica
e introspettiva, quella che dalla The Big Surprise
citata in apertura, passa per la strabiliante Ambulance
Man, strascicato e struggentissimo lamento infarcito di citazioni
"mitologiche" ("This was an old rodeo in the long ago, now it's a burning
ring of fire"), o ancora nel melvilliano lamento del baleniere di Sailor's
Song. Stavolta la combriccola dei Felice non ha proprio sbagliato
nulla nel toccare le corde più profonde del miglior cantautorato americano,
sia quando si dondolano nel ritmo pigro di Katie
Dear, sia quando si lasciano andare alle amare riflessioni
di And When We Were Young ("da dove
venivano quegli aeroplani che hanno bruciato la nostra città? Tutto quel
fumo e quella cenere ci hanno solo insegnato come schiantarci!"), fino
all'apoteosi dei sei minuti di Coopertown,
emozionante dedica a Ty Cobb, leggendario campione di baseball (uno sport
che gli americani ammantano della stessa epica che noi italiani attribuivamo
al ciclismo, prima che il doping ne distruggesse ogni possibilità poetica).
L'album si sorregge però anche su una vena più scanzonata e movimentata
(Penn Station e la sgangherata Memphis
Flu), o su scherzi rockettari usciti direttamente dal loro
studio di registrazione, che leggenda vuole essere stato ricavato da un
ex pollaio (Chicken Wire e l'irresistibile
Run Chicken Run).
Sapranno confermarsi su questi livelli in futuro? Stavolta rispondiamo
subito: chi se ne importa! Un disco come Yonder Is The Clock ormai l'hanno
fatto, e potrebbe davvero bastare. (Nicola Gervasini)