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Willy Vlautin: fughe e motel nella notte di Portland - speciale a cura di Donata Ricci -
E’ condensata tutta qui – e non è poco – la poetica di Willy Vlautin. Vicende complicate, a volte disperate, ma sempre tenacemente combattive, sospinte dal desiderio di conquistarsi condizioni di vita perlomeno accettabili. Storie ambientate in periferie metropolitane, ma più spesso in minuscoli agglomerati sperduti nel grande nulla americano. Hanno nomi evocativi: come Winnemucca, Nevada, che tra l’altro ha dato il titolo al quarto album dei Richmond Fontaine, da molti considerato il migliore della loro produzione. Uno dei brani si chiama Santiam, un altro di quei luoghi infinitesimali sparsi sul suolo americano. Ecco un’altra gradevole attitudine di questo autore: lasciar parlare l’atlante come fosse un Luigi Ghirri del calamaio. Il che equivale ad attribuire dignità contenutistica a pertinenze geografiche: un corso d’acqua secondario, un sobborgo o una small town che dir si voglia, ma anche una strada di negozi di liquori come Colfax Avenue. Pensate che meraviglia: un musicista che sente la musicalità dei nomi propri. Perchè sarebbe troppo facile ricavarla da una diluizione di slide o da un cello pizzicato. Lui invece pronuncia “San-ti-am” in uno spelling canoro che già da solo è melodia. Tuttavia la lentezza e gli arrangiamenti laconici di ballate come questa non devono farci scordare il Vlautin esploratore - soprattutto agli esordi - di percorsi musicali più loquaci e d’assalto. Non è una novità che i primi Richmond Fontaine fossero sensibili ai richiami del punk e plausibilmente anche delle band grunge di stanza a Seattle. Che poi si possono considerare vicini di casa, visto che i rispettivi stati di provenienza (Oregon e Washington) insistono entrambi nell’angolino in alto a sinistra della mappa degli Stati Uniti, ossia l’affascinante Nord-Ovest. Ipotesi avvalorata dal loro primo disco, Safety, che esce nel 1996 quando la diffusione del grunge è ancora massiccia, e per esempio dai due minuti belli tirati di Harold’s Club. Quella dei musicisti/scrittori o, se si preferisce,
scrittori/musicisti è una stimolante dimensione della creatività. Come
si incontrino, convivano, si struscino questi due mezzi espressivi nello
stesso artista è un campo d’indagine di sicuro interesse. Lo ha spiegato
bene Marco Denti nel suo recente volume Storie
sterrate, pubblicato anch’esso da Jimenez Editore. Un intero capitolo
è dedicato proprio a Willy Vlautin e vi si leggono intuizioni illuminanti.
Per esempio che nei libri di Vlautin ciò che è di seconda mano è nuovo,
perché tutto è scardinato, rovinoso, farraginoso. Aggiungo un dettaglio
curioso a proposito del nuovo romanzo: alcuni capitoli sono aperti da
una sorta di refrain che riguarda il numero di tentativi che la giovane
protagonista deve compiere prima che la sua macchina - una Sentra con
trent’anni nei pistoni – si decida a partire. Perché sono soprattutto
le vite delle persone ad essere scardinate e – come apprendiamo sempre
da Storie sterrate – ci vuole un sacco di coraggio per scrivere
romanzi che riguardano la gente comune. “Di notte, sì di notte, ci sedevamo sulle rive del fiume inquinato Willamette e cercavamo, sì cercavamo, di ricostruire le nostre vite lontano da lì”. E’ ciò che canta Vlautin con una bella dose di sofferenza nell’animo. Ma anche nelle corde vocali dato che, per sua stessa ammissione, la sua voce tradisce da sempre qualche carenza. E’ anche per questa ragione che, una volta conclusasi l’avventura Richmond Fontaine, decide di inserire nella nuova formazione una vocalist femminile nella figura di Amy Boone. Amy Boone è una manna piovuta dal cielo, perchè si accolla l’intero onere del canto, permettendo a Vlautin di concentrarsi sulla chitarra e sulla composizione. Il nuovo gruppo viene battezzato The Delines e dal 2012 ad oggi rappresenta una splendida realtà, titolare di tre dischi che catturano per la loro intensità. Seguono lo stesso solco tracciato dai Richmond Fontaine, ma lo sguardo compositivo e anche la scelta degli arrangiamenti sono rasserenati e sanno di buono come una stanza di motel appena rifatta. E ciò avviene nonostante le storie restino scarnificate fino all’osso. Basterebbe infatti gettare un occhio alle copertine dei dischi, di una semplicità disarmante con i loro motel disadorni e le insegne accese come fari nella notte, per intercettare storie di vite in transito su pick-up rugginosi ed esistenze tenute insieme con lo spago. Svolta femminile dunque con The Delines. Così come femmina è la protagonista di La notte arriva sempre. Lynette è una giovane donna che annaspa per guadagnare la superficie di un mare di guai; cerca per esempio di sopravvivere ad una madre tabagista e anaffettiva e tocca lei stessa zone oscure pur di raggranellare il gruzzolo necessario a riscattare la casa in cui abita: novanta metri quadrati anneriti dalla muffa e separati, per mezzo di un muro di cemento, dai rumori della Interstate 5, chè sempre a Portland ci troviamo. Lynette ce la mette tutta. Lynette è la controfigura dello stesso Vlautin. La conferma giunge quando, nei ringraziamenti finali (che assomigliano piuttosto a una postfazione) lo scrittore svela la sua personale battaglia: “Quando mi sono trasferito a Portland avevo ventisei anni. Dopo aver fatto il magazziniere per diverso tempo, ho lavorato per dieci anni come pittore di case e ho formato una band chiamata Richmond Fontaine. Sean Oldham, il batterista, era soprannominato HQ perché era il più sveglio e il più bravo di tutti. Lui e sua moglie erano proprietari della loro casa. Lui aveva persino un passaporto. Un giorno l’ho portato con me a vedere una casa di 45 metri quadrati mezza diroccata che era in vendita. Si trovava su una strada trafficata vicino a un minimarket ma in un bel quartiere. Gli ho detto che sognavo di comprarla e lui ha detto che sarei stato un cretino a non provarci..." E allora, per conferire circolarità a questo scritto,
è opportuno terminarlo citando un’altra canzone di The Delines, che sembra
fondersi alla perfezione con il nuovo romanzo di questo esemplare musicista/scrittore
o scrittore/musicista - sentitevi liberi di scegliere l’opzione che più
vi aggrada - non soltanto perché in entrambi si cita la notte. In realtà
in Waiting
on the Blue si riferisce questa situazione: “So che la notte finirà,
so che la notte finirà presto. Sono così stanco di aspettare nella malinconia.
I camion della spazzatura inizieranno a sbattere e anche i furgoni per
le consegne. Saranno loro che mi salveranno dal pensare a te. So che la
notte finirà, sono solo così stanco. Presto gli uccelli cominceranno a
cantare e le sveglie a suonare. E sarò salvato ancora una volta dalla
malinconia”. Riflessione di accorata bellezza, che ci rassicura su un
dubbio ancestrale: cosa succede quando la notte finisce? Succede che un’altra
notte arriva sempre. La notte arriva sempre (Jimenez, 2021) Verso nord (Quarup, 2013)
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