Il vetro infranto di Hackney Diamonds, quei diamanti senza valore
sull’asfalto del sabato sera, ci ricorda cosa rappresentano gli Stones
e quello che hanno sviluppato nelle loro mille incarnazioni. È tutto un
immaginario, dai film di Scorsese a Underworld di Don DeLillo,
gli Stones te li trovi ovunque, da Cuba all’altro capo del mondo, come
se non avessero limiti, e vale per la geografia così, a quanto parte,
come per il tempo. Nella fotografia di rito si stanno riducendo ed è evidente
ai più che gli Stones sopravvivono a se stessi, ma questo è l’unico dato
di fatto di Hackney Diamonds, che si colloca lì, a ricordare che
siamo vivi e che basta alzare il volume e, come diceva tanti anni fa John
Mellencamp, ti sembra di averli in casa.
Non se ne vanno, e non ti mollano più. Sono qui per far festa, l’hanno
sempre fatto e ancora una volta mettono a disposizione un party record
con tanti invitati espliciti e impliciti (i Beatles su tutti) per soddisfare
tutti e sprizzare un po’ di allegria in un mondo nefasto. Se si mettono
da parte per un attimo la confezione, il glamour e il clamore che circondano
ogni singola mossa degli Stones, i titoli e gli sproloqui e si lasciano
suonare le canzoni di Hackney Diamonds (così come le descrive nel
dettaglio Roberto Giuli qui di seguito) il risultato
è un vortice di rock’n’roll che uno si aspetta e che giustamente gli arriva
in faccia. L’effervescenza è quella di uno champagne d’annata, che magari
è pure invecchiato però parte con il botto ed è lo stesso per loro.
Certo, bisogna amare quelle strane creature erotiche che sono le chitarre
e le loro propaggini umanoidi ed è necessario svegliare il vicinato perché
Hackney Diamonds (come ogni disco degli Stones) è fatto per essere
suonato a volumi folli, senza rispetto per i timpani. Ci vuole anche un
minimo di conoscenza, anche epidermica, per distinguere le sfumature che
ripescano lungo un paio di secoli di musica americana, e ogni volta pare
li abbiano scoperti soltanto loro. Poi nel convivio selvaggio e lussurioso
ci stanno il produttore à la page, gli ospiti speciali, i fuochi d’artificio
e i fantasmi evocati da una lunghissima storia che vale come un sigillo
di garanzia che identifica ogni singola cellulare dell’attitudine dei
Rolling Stones con il rock’n’roll, impossibile sostenere qualcosa
di diverso.
In effetti, spulciando nel big bang seguito all’uscita di Hackney Diamonds
si scopre che, tra le principali piattaforme digitali, la “percentuale
di utenti a cui è piaciuto questo album: 97%”, e per quanto queste statistiche
siano soltanto piccoli lampi di relatività, l’elevato gradimento ricorda
ancora che i Rolling Stones sanno creare un varco temporale dove tutto
si ferma e l’unico movimento nell’intero universo è la danza primitiva
di Mick Jagger.
E arrivati in fondo a tutto c’è solo il blues, ma con una motivazione
ben precisa come scriveva Keith Richards: “La musica del ventesimo secolo
è fondata sul blues. Non ci sarebbe il jazz o qualsiasi altra forma di
musica moderna senza il blues. E quindi ogni canzone pop, per quanto trita
e sciocca, ha in sé un pizzico di blues, anche se i suoi stessi autori
ne sono inconsapevoli, o hanno cercato di eliminarne ogni traccia. Questa
musica è stata chiamata blues circa un secolo fa, ma la musica è una sensazione
e non è possibile stabilire una precisa data d’inizio per le sensazioni.
Le sensazioni nascono dalle persone e penso che questo sia il motivo per
cui il blues è universale, perché è parte di ognuno di noi”. Resta da
dire della copertina ma è kitsch, e il kitsch, che come diceva Miland
Kundera è “la dittatura del cuore”, non ammette repliche.
The
Rolling Stones Hackney
Diamonds [Polydor/ Universal 2023]
“Paul con gli Stones?”. E’ la domanda inevitabile; si ricollega, capovolta,
a quando la band si trovava a dover sostituire Mick Taylor, a un John
Lennon per un attimo possibile candidato. Più che la struttura armonica
dei pezzi in sé, è questo uno dei momenti topici di una discussione impregnata
di sana ironia, come dire, trascorse sessantuno primavere ci si trova
ancora a dibattere su un dualismo che ha fatto la storia e che ha avuto
pochi eguali. “Lo fanno apposta gli Stones”.
Che cosa c’è di più ironico di una band che entra nel settimo decennio?
Puntualmente, l’abbiamo detto cento volte, Mick e compagni dal 1970 si
presentano per “l’ultimo tour” o con l’ultimo disco, mettendo a soqquadro
un esercito di recensori alle prese con un copione di ferro, sempre spiazzando
comunque, come se il punto fosse davvero il livello dell’album e non la
descrizione di un qualcosa unico nel suo insieme. I critici. Non c’è bisogno
d’immunità né d’indulgenza per i Rolling Stones, essi, oltre che
nel far versare fiumi di inchiostro, sono maestri nel concepire l’arte
del rock come un gigantesco monolito, sono essi stessi quel monolito,
nei fatti un meccanismo oliato a perfezione. L’album serve per lanciare
il solito (alla faccia) tour, il quale a sua volta promuove l’album; fin
qui siamo nella norma; in mezzo ci sta però il più speciale e qualificato
artigianato dell’intrattenimento, dipanato attraverso anni di film, brani
inediti, performance a sorpresa, mostre, video inimitabili e sapienti
pause, lunghe magari diciotto anni, tanti quati ne sono passati da A
Bigger Bang.
Tornando alla domanda iniziale, definiremmo la partecipazione di Paul
McCartney come una ”chicca strategica”, non certo l’unica. Chicca è di
per sé il titolo dell’album, Hackney Diamonds, che rimanda
dritti alla Londra delle origini, con i mattoncini rossi, le stazioni
e i club dove si consuma il blues più verace di Jimmy Reed, Howlin’ Wolf
o Muddy Waters, quest’ultimo inconsapevole artefice della perla conclusiva
del disco, Rollin’ Stone (in questa sede Rolling Stone Blues, per
sole chitarra e armonica), che ai tempi dei suddetti mattoncini dava lo
start alla straordinaria avventura. “Mai tradire le radici, in oltre sessant’anni
non l’avevamo mai incisa”; lo fanno apposta gli Stones, sembra quasi che
Jagger e soci vogliano chiudere il cerchio, o uno dei tanti cerchi, ma
non si sa mai. E lo fanno apposta a suonare sempre più uguali a sé stessi,
come dire “se si vuole la novità, meglio rivolgersi altrove”, non esiste
il concetto di vecchio e nuovo, la matrice originale di quel “già sentito”
che si affaccia a un primo ascolto (vale non solo per “Hackney”), l’hanno
scritta loro e non è roba da poco, anzi sta qui la bellezza.
Tutti conoscono Miss You, Angie, Brown Sugar, non
tutti invece ricordano Moon Is Up, Low Down o Stealin’
My Heart; riempitivi (alla faccia!), come apostrofato da qualche parte;
salvo poi rivalutare con il tempo e precisare che gli album hanno sempre
l’urgenza di essere colmati. E già che sono molti i “riempitivi” in Hackney
Diamonds (sempre la medesima faccia!); si fa una fatica del diavolo
ad analizzarli tutti. Sono agenti colmanti le musiche, il riff di Driving
Me Too Hard, evidentemente una specie di Tumbling Dice “part two”,
il testo significativo di Whole Wide World, su riff assassino e
irrinunciabile stesura armonica, o quello dell’eccellente Depending
On You, è un eccipiente lo stesso Mick che bercia le parole
di Angry come se fosse il 1972 di Happy o che finge sardonica
disillusione sulla slide dolente di Dreamy Eyes.
Non ci sono solo i riempitivi, per fortuna anche gli espedienti di lusso.
Tanti, Elton John che percuote i tasti a suon di boogie nell’imperdibile
Live By The Sword, i cromatismi e
i singulti del basso di Macca (per tornare all’incipit) nella micidiale
Bite My Head Off, Keith che recita la sua Tell Me Straight,
ennesima ballata come in ogni album da Dirty Work in qua; per giunta
l’incommensurabile Elton ci prende gusto e partecipa a una classicissima
Get Close; per un attimo ci ritroviamo
nella swinging london. Espedienti, luci e lustrini; optionals, ma questa
è la storia, come la densa, maestosa Sweet Sounds
Of Heaven (con Stevie Wonder e Lady Gaga), tanto blues e qualche
strizzatina, poco importa se ispirata a I’Ve Got Dreams To Remember
di Otis Redding, le linee del soul sono state sdoganate da tempo. Come
sono storia gli stessi vecchi ragazzi di Dartford, che si permettono il
lusso di invitare il vecchio amico Bill Wyman proprio in Live By The
Sword e che dimostrano di mal sopportare la partenza forzata di Charlie,
richiamandolo ancora una volta per l’ammiccante Mess It Up e per
un salto allo Studio 54 di Broadway.
Riempitivi o perle che siano, emplicemente gli Stones si presentano all’appuntamento,
più che con un disco, con un bel pezzo di torta; al tempo stesso un’opera
di elevato peso specifico che senz’altro va oltre un primo ascolto superficiale.
Se possibile anche il sound sembra avere subito una svolta e forse in
questo c’entrano la produzione di Andrew Watt e la presenza di
Steve Jordan; oltre al resto. “Hackney Diamonds non è un lavoro contemporaneo
e non c’era bisogno che lo fosse”, tanto per citare, ma è forse il migliore
delle ultime epoche targate Stones. Che questi, gli Stones, non devono
fare il rock, il loro mestiere è quello di fare gli Stones, regalando
al pubblico quel set a trecentosessanta gradi come solo loro sanno fare.
Siamo ai vertici. Almeno da adesso in poi.