L'intervista

Foto © Emanuela Crosetti
Oltre venti anni
di carriera portati splendidamente, questa è la prima impressione che si ricava
ascoltando il primo live della tua carriera e leggendo il libro che in un certo
senso lo accompagna. In effetti si tratta della tua opera prima dal vivo, una
dimensione che ti si addice particolarmente. Perché hai impiegato così tanto per
regalarci un'emozione in presa diretta? C'è una ragione particolare? No,
non c'è ragione particolare. Rolling è stato pubblicato per i vent'anni
di carriera, certamente poteva arrivare qualche anno prima, ma le cose devono
essere naturali e questo era il periodo della mia vita in cui era "naturale" che
fosse realizzato il live ufficiale, così come il dvd e questa biografia che è
uscita contemporaneamente.
Il doppio album (e
il dvd che lo traduce in immagini) imprime su disco sensazioni
e vibrazioni di una notte magica, il concerto al Rolling
Stone di Milano del 28 marzo 2009. Tra i solchi si percepisce
tutta la forza che costituisce l'impianto base delle tue
canzoni, con una grinta che va ben oltre rispetto a quella
che traspare nelle tue fatiche in studio. C'è una differenza
sostanziale tra il palco e uno studio di registrazione,
immagino, un contatto con il tuo pubblico privo di filtri
o barriere. È così?
Studio e live sono
mondi e dimensioni totalmente diversi, non sovrapponibili. Ti dirò anche che in
generale ho sempre detestato i live che cercano di riprodurre i lavori registrati
in studio. La bellezza di un concerto vero sta proprio in quel reinventare e ritrovare
le canzoni che hai inciso, prendendoti anche dei rischi, caricando di energia,
di emotività e forza quello che stai facendo. Almeno, così è nel mio caso. Ti
dirò anche che un certo modo di fare musica porta con sé un po' di frustrazione
naturale nel non riuscire mai, in un disco in studio, a tradurre quello che poi
accade e realizzi in un concerto. Soprattutto se il concerto vive uno scambio
emotivo molto forte, come fortunatamente avviene spesso.
E dire che, soprattutto nei primi anni della tua carriera, il periodo che ti ha
visto scalare i piani alti delle classifiche, i concerti non figuravano tra le
tue "necessità" primarie. Non li consideravi importanti, oppure c'è qualche altra
ragione? Hai sempre affermato di aver privilegiato l'album in studio, in qualche
modo eri ossessionato dalla mania di pubblicare a ritmi abbastanza inconsueti…
Credo sia stato un mio errore, probabilmente, anche
se quel che avveniva era frutto del tempo che vivevo, di meccanismi più o meno
corretti in cui mi trovavo ed ero costretto a muovermi. Ma ho sempre considerato
il concerto il momento chiave di tutto, anche se in quegli anni ho suonato meno
di quanto avrei dovuto. Poi, non dimenticare che per fare molto live devi anche
"sentire" di avere intorno i musicisti giusti, un manager che gestisce bene quel
che fai ecc. E questo è avvenuto solo a tratti, come sai.
Nel doppio album ci sono le tue canzoni più belle, almeno le più significative,
con qualche "recupero" importante, oltre a un set acustico (che non fa parte della
stessa serata) e tre inediti in studio. Ben quattro le cover, una Ciao amore
ciao del grande Luigi Tenco, che nella tua rilettura diventa un rock vibrante
e incisivo, e due classici senza tempo, la dylaniana Mr. Tambourine Man
e il traditional We Shall Overcome, due brani che ben si addicono alla
tua "filosofia" di canzone. Nel set acustico, poi, è presente la tua intensa interpretazione
de Il Testamento del Capitano, veramente emozionante. D'altra parte, l'album
"Rock and Poems", la raccolta di "omaggi" ai tuoi maestri, aveva già
denotato una certa tua capacità nel rendere attuali e tuoi alcuni gioielli dal
valore incommensurabile. Che tipo di approccio hai avuto con queste canzoni?
Guarda, è stata un po' una sorpresa anche per me,
se vuoi anche una sfida con me stesso. Riprendere grandi canzoni che avevo amato
da ragazzo, che avevo suonato prima di incidere i miei album, provare a rileggerle
e a reinventarle è stato un po' come ritrovare quel ragazzo che suonava per le
strade. Ecco, in quel momento non ti poni limiti, non vedi confini, allora ci
sta il classico di Dylan, come Tenco col testo originario, come il canto degli
alpini… è chiaro che l'ultima cosa che devi fare è ricalcare le versioni originali.
La sfida e la bellezza consistono proprio nel desiderio di fare in qualche modo
tue il più possibile quelle canzoni, magari mettendole dentro anche nei concerti
che fai per vedere come risponde la gente al tuo personale modo di farle rivivere.
Rock and Poems è anche ciò che ti
contraddistingue rispetto ai tuoi "colleghi" italiani. Sei sempre riuscito a unire
poesia e rock'n'roll, a uscire dagli schemi di canzone che nel nostro paese hanno
la vista corta e una memoria che quasi non esiste. Ti ha sempre irritato questa
categorizzazione, cantautore o rocker, non c'è una via di mezzo, un modo per dare
senso a un'ispirazione che varca confini di genere e nazionalità. Un difetto tipicamente
"nostrano", a quanto pare, che hai sempre combattuto. La domanda che sorge spontanea
è forse anche un po' banale. Che cosa significa, per citare il titolo di un tuo
album del passato, fare rock in Italia? E cosa significa, in senso più ampio,
fare rock oggigiorno, in un paese che ha quasi perso l'udito e in un'epoca in
cui la musica sembra aver smarrito i suoi connotati sociali, la sua forza di coinvolgere,
di rispecchiare un preciso momento storico?
Non è presunzione né distacco quanto ti dico
che già la parola "colleghi" non appartiene al mio vocabolario.
Sono sempre stato un solitario, non ho particolari frequentazioni,
in fondo, almeno in Italia, non mi è mai interessato averne.
E poi un menestrello non ha colleghi, al massimo può averne
quando incrocia un altro menestrello solitario come lui.
Nella mia carriera, in Italia, non è mai capitato che accadesse.
Ovviamente quel che ti dico ha una valenza non tanto e non
solo musicale, ma soprattutto umana. Fare rock in Italia,
oggi, ma in generale fare rock può voler dire tutto e niente
allo stesso modo. Certo, il concetto del fare rock ha perso
per strada il valore di tipo sociale e culturale che ha
avuto in un determinato periodo storico che facilmente puoi
individuare. Resta più il valore del fare musica in un certo
modo, e credo abbia sempre grande importanza l'idea di intraprendere
la propria strada senza "cercare il successo". La parola
"successo", nei tempi che viviamo e per come è individuata,
è priva di senso oltre che di valore, come ti dicevo. È
solo un incrocio di circostanze non primarie. Il valore
sta, oltre che nell'aspetto artistico, nella verità che
c'è dentro il tuo percorso e nel tuo desiderio di difendere
quello che sei. Poi devi trovare il modo di condividerlo
con la gente, ma questo è un altro discorso, che riguarda
i modi di comunicare che hai o che ti vengono forniti.
I tuoi sforzi,
in effetti, vanno in direzione opposta. Oltre a una poetica di strada, quindi
priva di intellettualismo, che esprime stati d'animo condivisi da tutti, nella
perfetta declinazione qualitativa di musica popolare, la tua maturazione artistica
ti ha portato gradualmente a riscoprire e trasfigurare sul pentagramma un senso
di appartenenza. Parlo del tuo Veneto, di ciò che dal Veneto è diventato storia.
Nicolajevka e La strada del Davai nascono lì, nella tua terra, e
vanno ad assumere connotati e significati universali. Per tornare indietro carichi
di un senso compiuto, la nostra storia recente, che non deve e non dovrà mai essere
dimenticata, ma assimilata e condivisa. Come sono nate queste due straordinarie
canzoni? Davai e Niko sono nate perché io stesso
sono un figlio di questi soldati contadini, perché la mia terra rimane in qualche
modo ogni giorno dentro di me, perché da qualche parte nel cielo mio padre e mio
nonno le avranno sentite facendole loro. Perché la scrittura non ha confine, come
la musica, perché la fusione tra rock e poesia ha regalato forse le cose più belle
alla cultura popolare del mondo negli ultimi decenni. Perché il rock, grazie a
Dio, non riguarda solo le vicende nei bar di Viareggio o Ferrara.
Nelle tue canzoni mi ha sempre colpito un aspetto importante, una forte dimensione
"religiosa", se così vogliamo definirla, che sta alla base di molte storie di
strada che seguono le luci di un percorso intriso di speranza, di attesa, di verità
e rinnovamento. Qual è il tuo rapporto con la fede? Dio mi ha
dato la forza e la voce per vivere e per arrivare fino a qua. Nelle mie cadute
e nei miei errori ho spesso trovato la sua mano, che mi ha aiutato a rialzarmi.
Fin quando questo accadrà, continuerò lungo la mia strada… Ti verrà quindi naturale
comprendere la mia necessità di essere e di scrivere "per la parte debole del
mondo", qualche volta disegnando visioni e speranze di umana redenzione.
Un rocker "solitario", così ti sei definito in più di un'occasione. Un percorso
iniziato alla fine degli anni ottanta al cospetto di una major, la fama, le luci
dei riflettori, poi mille difficoltà e una forza d'animo incredibile che ti ha
permesso di calibrare meglio le tue doti e di fare la tua musica senza intromissioni.
Qual è la differenza principale tra il Massimo Priviero di San Valentino
e quello di oggi?
Ballano vent'anni… consapevolezze che si aggiungono,
scelte che si fanno, valori che decidi di continuare a difendere
senza metterli in vendita. L'essenza, tuttavia, non è cambiata.
Così come rimango il "rocker solitario" al quale hai accennato.
Il concetto di "solitudine forte e cercata" mi appartiene
molto, questo è quel che ero da ragazzo e ai tempi di San
Valentino, questo è quel che sono ancora oggi, una ventina
d'anni dopo. Poi, la solitudine è la necessità naturale
di un uomo che scrive, che compone, di un musicista come
di un falegname. La condivisione avviene nel momento in
cui comunichi mostrando al prossimo quello che hai fatto,
sperando che possa apprezzarlo e che gli regali emozione.
Ecco, in quel momento dividi la tua necessità di solitudine
e il valore che questa può avere per te. Accanto a questo,
come puoi immaginare, c'è la difficoltà di muoversi in un
mondo che certo non va nella direzione che ti augureresti.
Quali sono i collaboratori che in qualche modo hanno lasciato un segno nel tuo
percorso artistico e umano? Tutti quelli che in qualche modo
mi hanno affiancato, con amore e con forza. Impossibile citarli tutti, impossibile
stabilire un ordine di importanza, andrebbero da Steve Van Zandt fino allo splendido
pianista che collabora con me da alcuni anni, Onofrio Laviola. Ma credimi, ce
ne sono tanti… musicisti, ovviamente, e non solo.
Una particolare menzione per i tre inediti. Il primo, Lettera al figlio,
è un brano ispirato a una poesia di Rudyard Kipling. Una canzone che cresce per
poi esplodere a livello strumentale ed emozionale. Vivere è un manifesto
vibrante, un brano in perfetto stile Priviero che unisce speranza e presa di coscienza.
Splenda il sole, invece, è la canzone che mi ha più impressionato, una
dedica al "mite resistente" Alexander Langer, una poesia in musica, delicata ed
energica al tempo stesso, che molte stazioni radiofoniche dovrebbero far ascoltare
da mattina a sera, per far capire a tutti, giovani generazioni comprese, di che
pasta è fatta la musica vera. Tutto questo sta a significare che la tua ispirazione
è più fresca che mai, e che senz'altro saprai sorprenderci ancora… Ti
ringrazio. Le canzoni hanno questo tratto comune di umana resistenza e questa
necessità di poesia che fa da filo conduttore un po' a tutto quel che scrivo.
Sono canzoni che ritengo vadano a completare nel modo migliore il live… ma mi
fermo qui, credo che bastino le tue parole.
Parliamo un po' dei tuoi progetti a breve scadenza, ho sentito parlare di un album
acustico, solo chitarra e armonica… cosa c'è di vero? È
quel che ho in testa di fare e che credo farò in futuro. Tuttavia, è anche presto
per parlarne, si tratta di qualcosa che maturerà nei prossimi tempi. Credo proprio
che andrò verso un progetto del genere, magari te lo racconterò nei prossimi tempi.
Intanto, un abbraccio forte. |