:: Rollin' on the river of time…
Speciale Massimo Priviero: il live, il libro, l'intervista

A cura di David Nieri


Massimo Priviero
Rolling Live
[
Universal  
2010 2 cd+dvd]



Ce ne ha messo di tempo, ma alla fine il live è arrivato. Il concerto dello scorso anno, la magica serata del 28 marzo al Rolling Stone, rivive su due cd e un dvd a testimoniare la forza e la capacità di un artista italiano sulla scena da oltre vent'anni. Sembra non sentirli, Massimo Priviero, ma la strada, quella stessa strada che ha deciso di ripercorrere recentemente nel doppio cd antologico, non è stata certamente priva di ostacoli. Ascoltare le sue canzoni dal vivo è quasi come incontrarle per la prima volta, tanta è l'energia che Massimo riesce a imprimere al suo repertorio. Sembra che il peso specifico dei vari brani, sul palco, cresca a dismisura, raggiungendo una perfetta sinergia di intenti. I classici, insieme ad alcuni recuperi eccellenti, rivivono nella magica atmosfera di una performance memorabile incorniciata da quella che a mio avviso è la massima espressione dell'arte del rock all'interno dei nostri fragili confini (musicalmente parlando ma non solo, purtroppo). L'artista di Jesolo discioglie sentimenti e storie di strada, ammantandoli di poesia e speranza, umanità e sofferenza.

Gli ingredienti principali ci sono tutti, l'energia pure. Così i manifesti della sua "poetika" sono stilettate al cuore e al tepore dei ricordi (Dolce resistenza, Nessuna resa mai, San Valentino, Bambina di strada), oppure rasoiate di elettricità (la recente Bellitalia, una cover puramente rock'n'roll di Ciao amore ciao di Luigi Tenco, omaggio alla memoria singola e collettiva), che insieme alle terse suggestioni introspettive di Fragole a Milano e Grande mare rendono giustizia a un rocker che fa della coerenza e del rispetto nei confronti del suo mestiere una ragione di vita e condivisione. Splendido, poi, l'intermezzo "di frontiera", vale a dire La strada del Davai e Nikolajevka, due brani che rispolverano dall'oblio di molti un preciso periodo della nostra storia recente, quello che dal Veneto emigra in Russia per poi tornare tra le pieghe di un vivere che di quelle esperienze dovrebbe fare tesoro, senza confini, senza ipocrisie, ma soprattutto senza "revisioni". Quando si parla di umana sofferenza (e resistenza), queste non servono, fanno solo del male alla verità. La parentesi acustica che include Pane, giustizia e libertà, la splendida rivisitazione di un classico degli alpini, Il testamento del capitano, e Nessuna resa mai (quest'ultima solo sul dvd) è stata incisa separatamente a completare un quadro dai colori vivi che danno risalto alle varie anime di un artista che continua a crescere a livello compositivo.

Ottimi i musicisti, ormai rodati e fidati: dal bravissimo Alex Cambise, che con le corde se la intende a meraviglia, al grande Onofrio Laviola (pianoforte e tastiere), veri cardini del suono di questo live, senza dimenticare gli altri compagni di viaggio, da Sergio Leonarduzzi (chitarre elettriche) a Mauro Piu (basso), da Giovanni Massari (batteria) al nostro comune amico Michele Gazich, che rintuzza di poesia alcuni angoli del suono con il tocco magistrale del suo violino. Infine, last but not least, Giancarlo Galli, "che suona magicamente qualsiasi strumento abbia le corde", secondo le parole di Massimo. Una band affiatata che traduce benissimo sul palco le varie sfaccettature di un rocker strettamente legato alla sua terra e a questo nostro strano ma bellissimo paese. Tre gli inediti, dei quali parleremo nel corso dell'intervista, tre nuove proposte che confermano un periodo estremamente positivo e prolifico per l'artista, che senz'altro si merita tutta l'attenzione possibile, quella che spesso gli è stata negata o sottratta in nome di ben più sterili valori, se valori si possono chiamare. Le sue canzoni racchiudono il significato principe della vita, l'umana resistenza: per continuare a esistere, per sperare, per salvarci. Buon ascolto.

www.priviero.com


Matteo Strukul
Nessuna resa mai
La strada, il rock e la poesia di Massimo Priviero

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Meridiano Zero pp. 192]

Per definire nei dettagli la prima fase del percorso artistico e umano di Massimo Priviero, in concomitanza con l'uscita del doppio live, Meridiano Zero pubblica la prima (auto)biografia che definirei "confessionale", una lunga intervista suddivisa in capitoli cadenzati dagli undici album che riflettono tre periodi den distinti del rocksongwriter di casa nostra. A condurre il gioco un abile Matteo Strukul, che ripete la formula vincente del precedente volume dedicato a Massimo Bubola (Il cavaliere elettrico), consentendo all'artista veneto di dipanare la propria storia senza condizionamenti, nel perfetto stile che gli appartiene. Inevitabilmente, la dimensione artistica si interseca con quella umana, ed entrambe si arricchiscono sconfinando l'una nell'altra, senza retorica o intromissioni. Il mare d'inverno, la suggestione alla quale sono legati i ricordi d'infanzia e le prime pulsazioni artistiche, poi la metropoli, Milano per l'esattezza. In mezzo, un artista di strada che sogna di essere nato per correre, in modo da poter acciuffare le risposte che si nascondono nel vento. Poi il successo, che arriva forse inaspettato, due album con la Warner e tanta attenzione, con slogan altisonanti che contribuiscono solo a rendere più ardua e in salita la strada che porta alla terra promessa: "Ho visto il futuro del rock italiano e il suo nome è Massimo Priviero". Con il senno di poi, la previsione si è rivelata assolutamente azzeccata. Ma questi artifici non hanno fatto altro che condizionare, appesantire una responsabilità verso un sistema che Massimo non sentiva sua. E il gioco per lui non valeva la candela, o almeno, non la accendeva come lui desiderava.

Il secondo periodo è il più difficile, gli anni novanta (soprattutto la prima parte) lo vedono produrre buoni album ma senza l'attenzione che merita. Rocker solitario, Massimo è assolutamente estraneo all'istinto della svendita mediatica, e questo finirà sì per pesare sulla bilancia della notorietà, ma a lungo andare lo ricompenserà, permettendogli di proporre la sua musica per il suo pubblico. Oggi a un artista, noi che amiamo la musica, non possiamo chiedere di più. Il terzo periodo è quello della rinascita, lenta ma progressiva, che lo porta fino ai giorni nostri più ispirato che mai (e il live appena uscito ne è la dimostrazione più evidente). Massimo sta bene, tra le righe si percepisce la sua ritrovata serenità, con una band di collaboratori che sono al tempo stesso amici e ottimi consiglieri, insomma, persone "giuste". Nel percorso, bellissimi riferimenti alla sua terra, ai suoi genitori, alle sue memorie. Dolorosi i ricordi di personaggi poco raccomandabili, soprattutto nel mondo dello show business, che se all'inizio rischiano di distruggere una vita, gradualmente si rivelano essenziali nella sua scoperta. In mezzo, la collaborazione con un certo Steven Van Zandt ("Little", per chi legge), che arricchisce e misura le proporzioni di un talento.

Massimo è uno che non si arrende, e ci insegna a non farlo. In questo bellissimo libro possiamo cogliere gli aspetti essenziali di un artista come uomo, che riflette la propria esistenza nelle canzoni che compone. Gli amori, gli umori, le sconfitte e le delusioni, così come le rinascite e le vittorie, appartengono al bagaglio di chiunque intraprenda il viaggio della vita in modo coerente e "pulito". Vederli riflessi nelle sue poesie in musica non fa altro che amplificare il significato di questa pubblicazione, che può servire a comprendere meglio quali sono le coordinate entro le quali si muove l'ispirazione di un rocker dei giorni nostri. Italiano, per giunta .

 


L'intervista


Foto © Emanuela Crosetti

Oltre venti anni di carriera portati splendidamente, questa è la prima impressione che si ricava ascoltando il primo live della tua carriera e leggendo il libro che in un certo senso lo accompagna. In effetti si tratta della tua opera prima dal vivo, una dimensione che ti si addice particolarmente. Perché hai impiegato così tanto per regalarci un'emozione in presa diretta? C'è una ragione particolare?

No, non c'è ragione particolare. Rolling è stato pubblicato per i vent'anni di carriera, certamente poteva arrivare qualche anno prima, ma le cose devono essere naturali e questo era il periodo della mia vita in cui era "naturale" che fosse realizzato il live ufficiale, così come il dvd e questa biografia che è uscita contemporaneamente.

Il doppio album (e il dvd che lo traduce in immagini) imprime su disco sensazioni e vibrazioni di una notte magica, il concerto al Rolling Stone di Milano del 28 marzo 2009. Tra i solchi si percepisce tutta la forza che costituisce l'impianto base delle tue canzoni, con una grinta che va ben oltre rispetto a quella che traspare nelle tue fatiche in studio. C'è una differenza sostanziale tra il palco e uno studio di registrazione, immagino, un contatto con il tuo pubblico privo di filtri o barriere. È così?

Studio e live sono mondi e dimensioni totalmente diversi, non sovrapponibili. Ti dirò anche che in generale ho sempre detestato i live che cercano di riprodurre i lavori registrati in studio. La bellezza di un concerto vero sta proprio in quel reinventare e ritrovare le canzoni che hai inciso, prendendoti anche dei rischi, caricando di energia, di emotività e forza quello che stai facendo. Almeno, così è nel mio caso. Ti dirò anche che un certo modo di fare musica porta con sé un po' di frustrazione naturale nel non riuscire mai, in un disco in studio, a tradurre quello che poi accade e realizzi in un concerto. Soprattutto se il concerto vive uno scambio emotivo molto forte, come fortunatamente avviene spesso.

E dire che, soprattutto nei primi anni della tua carriera, il periodo che ti ha visto scalare i piani alti delle classifiche, i concerti non figuravano tra le tue "necessità" primarie. Non li consideravi importanti, oppure c'è qualche altra ragione? Hai sempre affermato di aver privilegiato l'album in studio, in qualche modo eri ossessionato dalla mania di pubblicare a ritmi abbastanza inconsueti…

Credo sia stato un mio errore, probabilmente, anche se quel che avveniva era frutto del tempo che vivevo, di meccanismi più o meno corretti in cui mi trovavo ed ero costretto a muovermi. Ma ho sempre considerato il concerto il momento chiave di tutto, anche se in quegli anni ho suonato meno di quanto avrei dovuto. Poi, non dimenticare che per fare molto live devi anche "sentire" di avere intorno i musicisti giusti, un manager che gestisce bene quel che fai ecc. E questo è avvenuto solo a tratti, come sai.

Nel doppio album ci sono le tue canzoni più belle, almeno le più significative, con qualche "recupero" importante, oltre a un set acustico (che non fa parte della stessa serata) e tre inediti in studio. Ben quattro le cover, una Ciao amore ciao del grande Luigi Tenco, che nella tua rilettura diventa un rock vibrante e incisivo, e due classici senza tempo, la dylaniana Mr. Tambourine Man e il traditional We Shall Overcome, due brani che ben si addicono alla tua "filosofia" di canzone. Nel set acustico, poi, è presente la tua intensa interpretazione de Il Testamento del Capitano, veramente emozionante. D'altra parte, l'album "Rock and Poems", la raccolta di "omaggi" ai tuoi maestri, aveva già denotato una certa tua capacità nel rendere attuali e tuoi alcuni gioielli dal valore incommensurabile. Che tipo di approccio hai avuto con queste canzoni?

Guarda, è stata un po' una sorpresa anche per me, se vuoi anche una sfida con me stesso. Riprendere grandi canzoni che avevo amato da ragazzo, che avevo suonato prima di incidere i miei album, provare a rileggerle e a reinventarle è stato un po' come ritrovare quel ragazzo che suonava per le strade. Ecco, in quel momento non ti poni limiti, non vedi confini, allora ci sta il classico di Dylan, come Tenco col testo originario, come il canto degli alpini… è chiaro che l'ultima cosa che devi fare è ricalcare le versioni originali. La sfida e la bellezza consistono proprio nel desiderio di fare in qualche modo tue il più possibile quelle canzoni, magari mettendole dentro anche nei concerti che fai per vedere come risponde la gente al tuo personale modo di farle rivivere.

Rock and Poems è anche ciò che ti contraddistingue rispetto ai tuoi "colleghi" italiani. Sei sempre riuscito a unire poesia e rock'n'roll, a uscire dagli schemi di canzone che nel nostro paese hanno la vista corta e una memoria che quasi non esiste. Ti ha sempre irritato questa categorizzazione, cantautore o rocker, non c'è una via di mezzo, un modo per dare senso a un'ispirazione che varca confini di genere e nazionalità. Un difetto tipicamente "nostrano", a quanto pare, che hai sempre combattuto. La domanda che sorge spontanea è forse anche un po' banale. Che cosa significa, per citare il titolo di un tuo album del passato, fare rock in Italia? E cosa significa, in senso più ampio, fare rock oggigiorno, in un paese che ha quasi perso l'udito e in un'epoca in cui la musica sembra aver smarrito i suoi connotati sociali, la sua forza di coinvolgere, di rispecchiare un preciso momento storico?

Non è presunzione né distacco quanto ti dico che già la parola "colleghi" non appartiene al mio vocabolario. Sono sempre stato un solitario, non ho particolari frequentazioni, in fondo, almeno in Italia, non mi è mai interessato averne. E poi un menestrello non ha colleghi, al massimo può averne quando incrocia un altro menestrello solitario come lui. Nella mia carriera, in Italia, non è mai capitato che accadesse. Ovviamente quel che ti dico ha una valenza non tanto e non solo musicale, ma soprattutto umana. Fare rock in Italia, oggi, ma in generale fare rock può voler dire tutto e niente allo stesso modo. Certo, il concetto del fare rock ha perso per strada il valore di tipo sociale e culturale che ha avuto in un determinato periodo storico che facilmente puoi individuare. Resta più il valore del fare musica in un certo modo, e credo abbia sempre grande importanza l'idea di intraprendere la propria strada senza "cercare il successo". La parola "successo", nei tempi che viviamo e per come è individuata, è priva di senso oltre che di valore, come ti dicevo. È solo un incrocio di circostanze non primarie. Il valore sta, oltre che nell'aspetto artistico, nella verità che c'è dentro il tuo percorso e nel tuo desiderio di difendere quello che sei. Poi devi trovare il modo di condividerlo con la gente, ma questo è un altro discorso, che riguarda i modi di comunicare che hai o che ti vengono forniti.

I tuoi sforzi, in effetti, vanno in direzione opposta. Oltre a una poetica di strada, quindi priva di intellettualismo, che esprime stati d'animo condivisi da tutti, nella perfetta declinazione qualitativa di musica popolare, la tua maturazione artistica ti ha portato gradualmente a riscoprire e trasfigurare sul pentagramma un senso di appartenenza. Parlo del tuo Veneto, di ciò che dal Veneto è diventato storia. Nicolajevka e La strada del Davai nascono lì, nella tua terra, e vanno ad assumere connotati e significati universali. Per tornare indietro carichi di un senso compiuto, la nostra storia recente, che non deve e non dovrà mai essere dimenticata, ma assimilata e condivisa. Come sono nate queste due straordinarie canzoni?

Davai e Niko sono nate perché io stesso sono un figlio di questi soldati contadini, perché la mia terra rimane in qualche modo ogni giorno dentro di me, perché da qualche parte nel cielo mio padre e mio nonno le avranno sentite facendole loro. Perché la scrittura non ha confine, come la musica, perché la fusione tra rock e poesia ha regalato forse le cose più belle alla cultura popolare del mondo negli ultimi decenni. Perché il rock, grazie a Dio, non riguarda solo le vicende nei bar di Viareggio o Ferrara.

Nelle tue canzoni mi ha sempre colpito un aspetto importante, una forte dimensione "religiosa", se così vogliamo definirla, che sta alla base di molte storie di strada che seguono le luci di un percorso intriso di speranza, di attesa, di verità e rinnovamento. Qual è il tuo rapporto con la fede?

Dio mi ha dato la forza e la voce per vivere e per arrivare fino a qua. Nelle mie cadute e nei miei errori ho spesso trovato la sua mano, che mi ha aiutato a rialzarmi. Fin quando questo accadrà, continuerò lungo la mia strada… Ti verrà quindi naturale comprendere la mia necessità di essere e di scrivere "per la parte debole del mondo", qualche volta disegnando visioni e speranze di umana redenzione.

Un rocker "solitario", così ti sei definito in più di un'occasione. Un percorso iniziato alla fine degli anni ottanta al cospetto di una major, la fama, le luci dei riflettori, poi mille difficoltà e una forza d'animo incredibile che ti ha permesso di calibrare meglio le tue doti e di fare la tua musica senza intromissioni. Qual è la differenza principale tra il Massimo Priviero di San Valentino e quello di oggi?

Ballano vent'anni… consapevolezze che si aggiungono, scelte che si fanno, valori che decidi di continuare a difendere senza metterli in vendita. L'essenza, tuttavia, non è cambiata. Così come rimango il "rocker solitario" al quale hai accennato. Il concetto di "solitudine forte e cercata" mi appartiene molto, questo è quel che ero da ragazzo e ai tempi di San Valentino, questo è quel che sono ancora oggi, una ventina d'anni dopo. Poi, la solitudine è la necessità naturale di un uomo che scrive, che compone, di un musicista come di un falegname. La condivisione avviene nel momento in cui comunichi mostrando al prossimo quello che hai fatto, sperando che possa apprezzarlo e che gli regali emozione. Ecco, in quel momento dividi la tua necessità di solitudine e il valore che questa può avere per te. Accanto a questo, come puoi immaginare, c'è la difficoltà di muoversi in un mondo che certo non va nella direzione che ti augureresti.

Quali sono i collaboratori che in qualche modo hanno lasciato un segno nel tuo percorso artistico e umano?

Tutti quelli che in qualche modo mi hanno affiancato, con amore e con forza. Impossibile citarli tutti, impossibile stabilire un ordine di importanza, andrebbero da Steve Van Zandt fino allo splendido pianista che collabora con me da alcuni anni, Onofrio Laviola. Ma credimi, ce ne sono tanti… musicisti, ovviamente, e non solo.

Una particolare menzione per i tre inediti. Il primo, Lettera al figlio, è un brano ispirato a una poesia di Rudyard Kipling. Una canzone che cresce per poi esplodere a livello strumentale ed emozionale. Vivere è un manifesto vibrante, un brano in perfetto stile Priviero che unisce speranza e presa di coscienza. Splenda il sole, invece, è la canzone che mi ha più impressionato, una dedica al "mite resistente" Alexander Langer, una poesia in musica, delicata ed energica al tempo stesso, che molte stazioni radiofoniche dovrebbero far ascoltare da mattina a sera, per far capire a tutti, giovani generazioni comprese, di che pasta è fatta la musica vera. Tutto questo sta a significare che la tua ispirazione è più fresca che mai, e che senz'altro saprai sorprenderci ancora…

Ti ringrazio. Le canzoni hanno questo tratto comune di umana resistenza e questa necessità di poesia che fa da filo conduttore un po' a tutto quel che scrivo. Sono canzoni che ritengo vadano a completare nel modo migliore il live… ma mi fermo qui, credo che bastino le tue parole.

Parliamo un po' dei tuoi progetti a breve scadenza, ho sentito parlare di un album acustico, solo chitarra e armonica… cosa c'è di vero?

È quel che ho in testa di fare e che credo farò in futuro. Tuttavia, è anche presto per parlarne, si tratta di qualcosa che maturerà nei prossimi tempi. Credo proprio che andrò verso un progetto del genere, magari te lo racconterò nei prossimi tempi. Intanto, un abbraccio forte.

 

 


 


<Credits>