Michele Gazich
La nave dei folli
[
Fono Bisanzio 2008]



Lo abbiamo conosciuto grazie alle collaborazioni che su queste pagine non sono certo passate inosservate. Michele Gazich è un grandissimo violinista, uno dei migliori sulla piazza, e in molti se ne sono accorti, non ultimo Mark Olson, che lo ha coinvolto nel bellissimo The Salvation Blues, indubbiamente il suo album solista più riuscito. Ma la lista è lunga, come lunghi sono stati i suoi viaggi durante i tour di supporto ai vari artisti, viaggi che in un certo senso hanno contribuito alla nascita del suo primo album come autore, una manciata di canzoni ricamate dal folk sulle cui sponde si respira il vento della poesia, quella vera. Una serie di brani che sorprendono per freschezza e genuinità, riflessi dalla voce docile e intensa di Luciana Vaona, che avevamo già incontrato in quel superbo bozzetto La fontana (e la domenica) contenuto in Segreti trasparenti di Massimo Bubola. Un cantautore che non canta, in questo caso, ma un autore di grande spessore che ci accompagna in un viaggio affascinante, in cui il suono poggia sulle magiche note del violino e i rintocchi pianistici di un bravissimo Beppe Donadio. Non c'è batteria, non c'è chitarra, gli echi folk sono ben rintracciabili ma le etichette in questo caso mal si adeguano a un progetto decisamente originale. Come abbiamo accennato, le canzoni, e soprattutto i testi, sono state composte per lo più in viaggio, quando la finestra del cuore si spalanca verso orizzonti più ampi. Gazich dimostra un indubbio talento anche in fase di composizione, i suoi versi lasciano aperti spiragli da riempire a ogni ascolto, in cui nuovi significati sembrano bussare alla porta delle nostre percezioni. Canzoni come Guerra civile, Tra il diavolo e il mare, La Venere di carta, Poeta in gabbia e La nave dei folli sono dei gioielli da scoprire per chi ama la musica d'autore, per chi ha voglia di riflettere, per chi decide di camminare iniziando a guardare con occhi diversi il mondo circostante. Ho avuto il piacere di intervistare Michele, una persona squisita, gentile e disponibile che ha parlato del suo disco con la passione di un vero artista del quale oggigiorno pare si sia perso lo stampo.
(a cura di David Nieri)

www.michelegazich.it


Sulla nave dei folli, l'intervista con Michele Gazich

Il tuo percorso artistico ha seguito diverse rotte, prima di trovare posto sulla nave dei folli. Da musicista "classico" ad autore di brani in cui l'impostazione folk è a tratti molto marcata la strada è lunga. Quando è nato questo forte desiderio espressivo e comunicativo?

Ho sempre desiderato aprire il mio cuore. Il mio carattere riservato me lo impediva, da ragazzo. Poi ho scoperto che con musica e poesia avrei potuto abbandonare ogni pudore. E ho cominciato a scrivere continuamente, tanto, certamente troppo, ma lentamente ho trovato la mia strada. La musica ha iniziato a possedermi. Suonando, inconsciamente, ho cominciato a muovermi, in una sorta di danza estatica. Ancora oggi mi muovo molto quando suono. Agli esami in Conservatorio mi dicevano: "Suoni bene, ma che bisogno c'è di muoversi così tanto?". Il Conservatorio crea impiegati della musica, custodi del museo immobili alla porta, che non entrano e non conoscono come è stato prodotto ciò che meccanicamente e virtuosisticamente riproducono. Grazie a Dio, a fine maggio 1992 ho preso un treno da Torino a Milano, ho incontrato Michelle Shocked e la sera di quel giorno ero su un palco con lei: la mia vita musicale sarebbe cambiata. Non sto romanzando la mia vita: è andata proprio così.

Negli anni hai collaborato con artisti di fama internazionale che hanno "riportato tutto a casa", citando forse il più grande poeta della canzone di tutti i tempi. Oltre alla citata Michelle Shocked, nel tuo curriculum figurano Eric Andersen, Victoria Williams, Mark Olson, senza dimenticare l'importantissimo contributo a livello di produzione e composizione per alcuni album di Massimo Bubola e Luigi Maieron. Si tratta di artisti che in un certo senso hanno riannodato le fila del rock per rintracciarne la matrice comune nel folk. Alcune di queste esperienze ti hanno portato in giro per il mondo. Penso che abbiano avuto un ascendente molto particolare sulla tua decisione di cimentarti come autore di testi e musica in un disco tutto tuo.

In effetti ho sempre scritto: musica, canzoni, testi vari, poesie, eccetera, ma non sono un cantante. Tanti mi hanno detto: "Perché non hai cantato tu le tue canzoni?". Ho risposto che non sono un cantante e che Luciana Vaona le avrebbe cantate meglio. Viviamo nell'epoca dell'approssimazione, in cui tutti pensano di potersi improvvisare ciò che non sono. Non essendo un cantante, tuttavia, negli anni passati la cosa più saggia mi è sembrata quella di collaborare a livello musicale con vari cantautori. Da tutte le persone che hai menzionato ho imparato qualcosa. Ho sempre cercato di analizzare le loro canzoni, di capire come fossero costruite. I cantautori, di solito, notavano questo mio interesse e mi coinvolgevano anche a livello di produzione, di costruzione dell'arrangiamento, talvolta anche a livello compositivo. È stata una buona scuola, ho imparato sul campo.

La nave dei folli è un disco bellissimo, dalle forti connotazioni poetiche, difficilmente etichettabile. Non è propriamente folk, anche se ne possiede alcune declinazioni in brani come Tra il diavolo e il mare, poggia su un'impostazione acustica, senza batteria e chitarra, uno strumento quest'ultimo che possiamo considerare indispensabile nel genere. Lo definirei cantautorato poetico con inflessioni classiche, anche se non sei tu a cantare, con il tuo magico violino e il piano a scandire le emozioni. Sei d'accordo?

Ti ringrazio per l'aggettivo superlativo… Sì, la tua definizione mi piace. Georges Brassens, un autore che ho molto amato e studiato, chiamava le sue canzoni "Chansons poétiques" e mi fa piacere e mi inorgoglisce se, parlando dei miei tentativi di scrittura, alludi alla sua opera, sempre magistrale. Ammiro molto Brassens. Riguardo al folk, il più grande poeta della canzone di tutti i tempi a cui accennavi prima ne ha sempre rifiutato ogni semplicistica e tranquillizzante definizione. Il folk, o meglio, la musica tradizionale, le terribili ballate che, in maniera suadente, parlano di "rose che crescono nel cervello della gente e di amanti che in realtà sono oche o cigni", quelle canzoni "che vengono da Bibbie e pestilenze" [Bob Dylan, intervista a Playboy, marzo 1966] faranno per sempre parte della mia poetica. Dalla musica tradizionale ho appreso alcune movenze melodiche, ma soprattutto una visione del mondo. L'insegnamento di Dylan è osare, uscire dalla pigrizia mentale. Così, ricercando un suono che fosse mio, ho osato e ho eliminato chitarra e batteria. Voglio ricordare i musicisti che hanno creduto nel mio progetto: Luciana Vaona, che ha saputo cantare con forte coinvolgimento emotivo le mie canzoni, cercando una nuova voce per cantarle; Beppe Donadio, cantautore che ha suonato il piano come solo un cantautore avrebbe fatto, senza note inutili, ma sempre al servizio della canzone, con un orecchio alla tastiera e uno alle parole; Fabrizio Carletto, bassista, con un passato significativo nel "Gruppo spontaneo di musica moderna" e un presente molto lieto con il gruppo dei "Ciansunier"; Elena Ambrogio, il flauto traverso che ha caratterizzato tutte le mie produzioni artistiche, da quasi dieci anni.

Il disco è diviso in due parti, con una prima sezione più ariosa e fruibile e una seconda pervasa da oscuri presagi, un senso di perdita, tristezza, desolazione. Anche a livello strettamente musicale sono presenti brani decisamente complessi. Come Giona, ad esempio, ha un incedere ipnotico, quasi psichedelico. Da cosa nasce l'esigenza di questa divisione?

Volevo dare respiro all'ascoltatore. Restituirgli almeno virtualmente quel momento di riflessione e di attesa che si aveva un tempo quando si girava il vinile. Ho collocato le composizioni più lunghe e impegnative nella seconda parte, pensando che chi fosse arrivato fin lì avrebbe avuto davvero voglia di ascoltarle, dopo essere stato attratto dalle canzoni più immediate della prima parte.

Ho trovato decisamente interessanti i testi, che a ogni ascolto rivelano nuovi significati, lasciando all'ascoltatore uno spazio continuo da riempire. Considero le tue liriche delle vere e proprie poesie. Tra il diavolo e il mare mi ricorda Volta la carta di De André, una sorta di filastrocca che trae origine dai proverbi popolari, in un certo senso il paradigma degli opposti entro i quali forse sono racchiuse quelle tonalità di grigio che attenuano i contrasti, rendendoli meno distanti (il verso "tra l'ago e la cruna se cerchi hai fortuna" può essere un esempio in questo senso).

Bella la tua interpretazione. Mi è sempre piaciuto trovare collegamenti tra le cose. Ho suonato in molti concerti Volta la carta con Massimo Bubola e ho avuto modo di ripensare spesso alle caratteristiche compositive di quella canzone, alla girandola caleidoscopica di immagini su una semplice scansione folk. Certamente è una di quelle composizioni che porto sempre con me e mi avrà probabilmente influenzato. Mentre scrivevo Tra il diavolo e il mare, tuttavia, avevo soprattutto in mente una potentissima canzone di Guy Clark: "One man's hand is another man's fist / One man's hug is another man's shove / One man's rock is another man's sand / One man's fist is another man's hand…" [Hank Williams Said it Best, Dublin Blues, 1995]. Grande, vero?

Grandissima canzone, Guy Clark è nella lista dei maestri e quello è uno dei suoi dischi migliori. Sempre in Tra il diavolo e il mare è presente una summa della poetica dell'album, visto che sono richiamate altre canzoni come L'idiota è tornato in città e La Venere di carta. La nave dei folli si configura come una sorta di viaggio della speranza in questa terra desolata, vittima di una corsa all'oro che porta soltanto alla cecità dei sentimenti, come ben delineato in Guerra civile, bellissima composizione eseguita e cantata in modo magistrale. Mi hanno colpito molto i versi in cui affermi che "Dio sopravvive nei dettagli / Nelle crepe dei centri commerciali", quei dettagli in cui dovremmo ritrovarci e ritrovare gli altri, in una società in cui "la domenica impiccano i poeti", cioè coloro che forse sono gli unici a poter garantire un soffio di vita in questo vento di distruzione. C'è anche un riferimento alla Germania degli anni venti, ai primi segnali di ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Consideri questa epoca come l'inizio di un inesorabile declino spirituale?

Spero che non si vada incontro a un declino spirituale, spero che ci sia invece una sorta di reazione, di rinascita, di recupero di fede in ciò che veramente vale nell'uomo. È in atto una guerra civile tra i soldi e lo spirito. Al momento, i soldi hanno vinto la battaglia e ogni domenica in qualche megastore impiccano un poeta, ma la guerra è ancora in corso e l'amore potrebbe ancora avere la meglio.

Di un grande poeta statunitense si parla in un altro brano cardine dell'album, Poeta in gabbia, canzone dedicata a Ezra Pound, uno dei grandi innovatori della poesia del Novecento e non solo. Pound pagò a caro prezzo la sua adesione agli ideali del fascismo e nel 1945 fu internato dal governo americano al Disciplinary Training Center vicino a Pisa, oltretutto molto vicino al luogo dove sono nato. Per tre settimane fu rinchiuso in una gabbia esposta al sole di giorno e ai riflettori di notte, poi fu costretto per diversi anni in un manicomio. Di lui nella canzone riporti un bellissimo verso, "Quello che sai amare non ti sarà strappato", cioè l'amore, quello vero che è dentro di noi, non si può estirpare, neanche con le torture più violente. Pound è stato un poeta dell'anima. La sua costrizione in una gabbia è un ulteriore spunto per metaforizzare la condizione in cui versa la società moderna, in cui si mercificano i valori, quelli più veri?

Sì, certamente, è un po' lo stesso concetto al quale abbiamo accennato in precedenza. Lo scopo della canzone tuttavia è anche un altro: a trent'anni dalla legge Basaglia, grazie alla quale sono stati chiusi i manicomi, volevo ricordare, tramite l'emblematico caso di Pound, tutti coloro, e sono tanti, da Torquato Tasso a Mandel'štam, che sono stati isolati dalla società, rinchiusi, incarcerati con i più vari pretesti e accuse o semplicemente ritenuti pazzi, perché le loro parole turbavano il quieto e ottuso tran tran quotidiano imposto dall'alto.

Il brano che dà il titolo all'album condensa uno straordinario messaggio, soprattutto negli ultimi versi. I folli sono coloro che ci credono ancora, in perpetua guerra civile con chi rema seguendo correnti di desiderio materiale, i folli sono gli idioti che "sono sordi ma ci sentono lo stesso", quelli che "sanno la verità". I folli sono coloro che si arrendono per assicurarsi un futuro e poter scorgere il sole del giorno dopo. Una visione che al mondo d'oggi risuona come un canto poetico che in molti dovrebbero ascoltare.

Ho scritto a lungo la title track dell'album, dal gennaio 2007 all'agosto 2008 e, nei versi conclusivi, ho voluto riassumere il tutto in un messaggio che fosse forte e chiaro: "Siamo tutti in una barca / E se affonda nessuno ci trova, / Non vi dico perdono, perdono, perdono, perdono ad oltranza / Nessuno di noi è un santo, / Ma, se potete, aprite il pugno / La resa è vita, è futuro". Viviamo in mezzo ai "vincenti", ai sopraffattori. Il mio messaggio è un invito a essere in controtendenza. Tentiamo di vivere all'interno dell'amore e forse avremo un futuro.

L'album si chiude con una nota di speranza. Canzone dell'amore lungamente atteso (e nel titolo non posso fare a meno di notare un altro parallelismo con il grande cantautore genovese), parla di chiavi ritrovate, quelle chiavi dell'amore che si erano perse in La Venere di carta. Come hai appena affermato, sembra di capire che l'amore sia l'unico sentimento capace di smuovere le coscienze, quindi il motore per l'inizio della possibile condivisione di un mondo migliore.

L'allusione alla Canzone dell'amore perduto è fortemente voluta. Consciamente ho tentato di scrivere un brano sulla gioia dell'amore che non suonasse zuccheroso, ma che mantenesse in sé tutta l'intensità che si ritrova di solito nelle canzoni che parlano di amori sfortunati. Spero di esserci riuscito. È stata una sfida per me e un modo, credo, signorile e indiretto per omaggiare Fabrizio De André, che in questi anni è stato oggetto di smaccati "tributi", la cui finalità, quasi sempre, non era onorare il grande maestro ligure, ma riempirsi le tasche di grano.
Oltre a ciò, volevo chiudere l'album su una nota effettivamente positiva, di speranza, di condivisione affettuosa con i miei ascoltatori, che voglio salutare con affetto e sincera gratitudine alla fine di questa intervista. So di essere un privilegiato ad avere qualcuno che mi ascolta. Ho un sito, www.michelegazich.it, dove mi si può scrivere. Non sono una star, credo che sia evidente a tutti, ma sono un uomo che cerca di portare avanti con forza e dignità la parte di vita che gli resta da vivere. Rispondo personalmente a chiunque abbia voglia di scrivermi.

Quali sono i tuoi progetti per l'immediato futuro?

Andare avanti a fare ciò che sto facendo: scrivere e suonare. Auspico di proporre il concerto de La nave dei folli in giro per l'Italia e altrove. Sono noto come violinista, innanzitutto: sarò dunque, probabilmente, coinvolto, a vari livelli, con altri artisti. All'interno di queste collaborazioni, spero, a un certo punto dell'anno, di incontrare ancora Mark Olson. Negli ultimi due anni sono stato in giro per Europa e Stati Uniti con Mark, per promuovere il suo album The Salvation Blues. Mark è stato per me uno sprone: lui non scrive e non suona per la gloria o la fama, ma per la salvezza.


 


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