Sulla
nave dei folli, l'intervista con Michele Gazich
Il tuo percorso
artistico ha seguito diverse rotte, prima di trovare
posto sulla nave dei folli. Da musicista "classico"
ad autore di brani in cui l'impostazione folk
è a tratti molto marcata la strada è lunga. Quando
è nato questo forte desiderio espressivo e comunicativo?
Ho sempre desiderato aprire
il mio cuore. Il mio carattere riservato me lo impediva, da ragazzo. Poi ho scoperto
che con musica e poesia avrei potuto abbandonare ogni pudore. E ho cominciato
a scrivere continuamente, tanto, certamente troppo, ma lentamente ho trovato la
mia strada. La musica ha iniziato a possedermi. Suonando, inconsciamente, ho cominciato
a muovermi, in una sorta di danza estatica. Ancora oggi mi muovo molto quando
suono. Agli esami in Conservatorio mi dicevano: "Suoni bene, ma che bisogno c'è
di muoversi così tanto?". Il Conservatorio crea impiegati della musica, custodi
del museo immobili alla porta, che non entrano e non conoscono come è stato prodotto
ciò che meccanicamente e virtuosisticamente riproducono. Grazie a Dio, a fine
maggio 1992 ho preso un treno da Torino a Milano, ho incontrato Michelle Shocked
e la sera di quel giorno ero su un palco con lei: la mia vita musicale sarebbe
cambiata. Non sto romanzando la mia vita: è andata proprio così.
Negli anni hai collaborato con artisti di fama internazionale che hanno "riportato
tutto a casa", citando forse il più grande poeta della canzone di tutti i tempi.
Oltre alla citata Michelle Shocked, nel tuo curriculum figurano Eric Andersen,
Victoria Williams, Mark Olson, senza dimenticare l'importantissimo contributo
a livello di produzione e composizione per alcuni album di Massimo Bubola e Luigi
Maieron. Si tratta di artisti che in un certo senso hanno riannodato le fila del
rock per rintracciarne la matrice comune nel folk. Alcune di queste esperienze
ti hanno portato in giro per il mondo. Penso che abbiano avuto un ascendente molto
particolare sulla tua decisione di cimentarti come autore di testi e musica in
un disco tutto tuo. In effetti ho sempre scritto:
musica, canzoni, testi vari, poesie, eccetera, ma non sono un cantante. Tanti
mi hanno detto: "Perché non hai cantato tu le tue canzoni?". Ho risposto che non
sono un cantante e che Luciana Vaona le avrebbe cantate meglio. Viviamo nell'epoca
dell'approssimazione, in cui tutti pensano di potersi improvvisare ciò che non
sono. Non essendo un cantante, tuttavia, negli anni passati la cosa più saggia
mi è sembrata quella di collaborare a livello musicale con vari cantautori. Da
tutte le persone che hai menzionato ho imparato qualcosa. Ho sempre cercato di
analizzare le loro canzoni, di capire come fossero costruite. I cantautori, di
solito, notavano questo mio interesse e mi coinvolgevano anche a livello di produzione,
di costruzione dell'arrangiamento, talvolta anche a livello compositivo. È stata
una buona scuola, ho imparato sul campo.
La nave dei folli è un disco bellissimo, dalle forti connotazioni
poetiche, difficilmente etichettabile. Non è propriamente folk, anche se ne possiede
alcune declinazioni in brani come Tra il diavolo e il mare, poggia su un'impostazione
acustica, senza batteria e chitarra, uno strumento quest'ultimo che possiamo considerare
indispensabile nel genere. Lo definirei cantautorato poetico con inflessioni classiche,
anche se non sei tu a cantare, con il tuo magico violino e il piano a scandire
le emozioni. Sei d'accordo? Ti ringrazio per l'aggettivo
superlativo… Sì, la tua definizione mi piace. Georges Brassens, un autore che
ho molto amato e studiato, chiamava le sue canzoni "Chansons poétiques" e mi fa
piacere e mi inorgoglisce se, parlando dei miei tentativi di scrittura, alludi
alla sua opera, sempre magistrale. Ammiro molto Brassens. Riguardo al folk, il
più grande poeta della canzone di tutti i tempi a cui accennavi prima ne ha sempre
rifiutato ogni semplicistica e tranquillizzante definizione. Il folk, o meglio,
la musica tradizionale, le terribili ballate che, in maniera suadente, parlano
di "rose che crescono nel cervello della gente e di amanti che in realtà sono
oche o cigni", quelle canzoni "che vengono da Bibbie e pestilenze" [Bob Dylan,
intervista a Playboy, marzo 1966] faranno per sempre parte della mia poetica.
Dalla musica tradizionale ho appreso alcune movenze melodiche, ma soprattutto
una visione del mondo. L'insegnamento di Dylan è osare, uscire dalla pigrizia
mentale. Così, ricercando un suono che fosse mio, ho osato e ho eliminato chitarra
e batteria. Voglio ricordare i musicisti che hanno creduto nel mio progetto: Luciana
Vaona, che ha saputo cantare con forte coinvolgimento emotivo le mie canzoni,
cercando una nuova voce per cantarle; Beppe Donadio, cantautore che ha suonato
il piano come solo un cantautore avrebbe fatto, senza note inutili, ma sempre
al servizio della canzone, con un orecchio alla tastiera e uno alle parole; Fabrizio
Carletto, bassista, con un passato significativo nel "Gruppo spontaneo di musica
moderna" e un presente molto lieto con il gruppo dei "Ciansunier"; Elena Ambrogio,
il flauto traverso che ha caratterizzato tutte le mie produzioni artistiche, da
quasi dieci anni. Il disco è diviso
in due parti, con una prima sezione più ariosa e fruibile e una seconda pervasa
da oscuri presagi, un senso di perdita, tristezza, desolazione. Anche a livello
strettamente musicale sono presenti brani decisamente complessi. Come Giona, ad
esempio, ha un incedere ipnotico, quasi psichedelico. Da cosa nasce l'esigenza
di questa divisione? Volevo dare respiro all'ascoltatore.
Restituirgli almeno virtualmente quel momento di riflessione e di attesa che si
aveva un tempo quando si girava il vinile. Ho collocato le composizioni più lunghe
e impegnative nella seconda parte, pensando che chi fosse arrivato fin lì avrebbe
avuto davvero voglia di ascoltarle, dopo essere stato attratto dalle canzoni più
immediate della prima parte. Ho trovato
decisamente interessanti i testi, che a ogni ascolto rivelano nuovi significati,
lasciando all'ascoltatore uno spazio continuo da riempire. Considero le tue liriche
delle vere e proprie poesie. Tra il diavolo e il mare mi ricorda Volta
la carta di De André, una sorta di filastrocca che trae origine dai proverbi popolari,
in un certo senso il paradigma degli opposti entro i quali forse sono racchiuse
quelle tonalità di grigio che attenuano i contrasti, rendendoli meno distanti
(il verso "tra l'ago e la cruna se cerchi hai fortuna" può essere un esempio in
questo senso). Bella la tua interpretazione. Mi è sempre piaciuto
trovare collegamenti tra le cose. Ho suonato in molti concerti Volta la carta
con Massimo Bubola e ho avuto modo di ripensare spesso alle caratteristiche compositive
di quella canzone, alla girandola caleidoscopica di immagini su una semplice scansione
folk. Certamente è una di quelle composizioni che porto sempre con me e mi avrà
probabilmente influenzato. Mentre scrivevo Tra il diavolo e il mare, tuttavia,
avevo soprattutto in mente una potentissima canzone di Guy Clark: "One man's hand
is another man's fist / One man's hug is another man's shove / One man's rock
is another man's sand / One man's fist is another man's hand…" [Hank Williams
Said it Best, Dublin Blues, 1995]. Grande, vero?
Grandissima
canzone, Guy Clark è nella lista dei maestri e
quello è uno dei suoi dischi migliori. Sempre
in Tra il diavolo e il mare è presente
una summa della poetica dell'album, visto che
sono richiamate altre canzoni come L'idiota
è tornato in città e La Venere di carta.
La nave dei folli si configura come
una sorta di viaggio della speranza in questa
terra desolata, vittima di una corsa all'oro che
porta soltanto alla cecità dei sentimenti, come
ben delineato in Guerra civile, bellissima
composizione eseguita e cantata in modo magistrale.
Mi hanno colpito molto i versi in cui affermi
che "Dio sopravvive nei dettagli / Nelle crepe
dei centri commerciali", quei dettagli in cui
dovremmo ritrovarci e ritrovare gli altri, in
una società in cui "la domenica impiccano i poeti",
cioè coloro che forse sono gli unici a poter garantire
un soffio di vita in questo vento di distruzione.
C'è anche un riferimento alla Germania degli anni
venti, ai primi segnali di ciò che sarebbe avvenuto
in seguito. Consideri questa epoca come l'inizio
di un inesorabile declino spirituale?
Spero che non si vada incontro a un declino spirituale, spero che ci sia invece
una sorta di reazione, di rinascita, di recupero di fede in ciò che veramente
vale nell'uomo. È in atto una guerra civile tra i soldi e lo spirito. Al momento,
i soldi hanno vinto la battaglia e ogni domenica in qualche megastore impiccano
un poeta, ma la guerra è ancora in corso e l'amore potrebbe ancora avere la meglio.
Di un grande poeta statunitense si parla in un altro brano
cardine dell'album, Poeta in gabbia, canzone dedicata a Ezra Pound, uno
dei grandi innovatori della poesia del Novecento e non solo. Pound pagò a caro
prezzo la sua adesione agli ideali del fascismo e nel 1945 fu internato dal governo
americano al Disciplinary Training Center vicino a Pisa, oltretutto molto vicino
al luogo dove sono nato. Per tre settimane fu rinchiuso in una gabbia esposta
al sole di giorno e ai riflettori di notte, poi fu costretto per diversi anni
in un manicomio. Di lui nella canzone riporti un bellissimo verso, "Quello che
sai amare non ti sarà strappato", cioè l'amore, quello vero che è dentro di noi,
non si può estirpare, neanche con le torture più violente. Pound è stato un poeta
dell'anima. La sua costrizione in una gabbia è un ulteriore spunto per metaforizzare
la condizione in cui versa la società moderna, in cui si mercificano i valori,
quelli più veri? Sì, certamente, è un po' lo stesso
concetto al quale abbiamo accennato in precedenza. Lo scopo della canzone tuttavia
è anche un altro: a trent'anni dalla legge Basaglia, grazie alla quale sono stati
chiusi i manicomi, volevo ricordare, tramite l'emblematico caso di Pound, tutti
coloro, e sono tanti, da Torquato Tasso a Mandel'štam, che sono stati isolati
dalla società, rinchiusi, incarcerati con i più vari pretesti e accuse o semplicemente
ritenuti pazzi, perché le loro parole turbavano il quieto e ottuso tran tran quotidiano
imposto dall'alto. Il brano che dà
il titolo all'album condensa uno straordinario messaggio, soprattutto negli ultimi
versi. I folli sono coloro che ci credono ancora, in perpetua guerra civile con
chi rema seguendo correnti di desiderio materiale, i folli sono gli idioti che
"sono sordi ma ci sentono lo stesso", quelli che "sanno la verità". I folli sono
coloro che si arrendono per assicurarsi un futuro e poter scorgere il sole del
giorno dopo. Una visione che al mondo d'oggi risuona come un canto poetico che
in molti dovrebbero ascoltare. Ho scritto a lungo la
title track dell'album, dal gennaio 2007 all'agosto 2008 e, nei versi conclusivi,
ho voluto riassumere il tutto in un messaggio che fosse forte e chiaro: "Siamo
tutti in una barca / E se affonda nessuno ci trova, / Non vi dico perdono, perdono,
perdono, perdono ad oltranza / Nessuno di noi è un santo, / Ma, se potete, aprite
il pugno / La resa è vita, è futuro". Viviamo in mezzo ai "vincenti", ai sopraffattori.
Il mio messaggio è un invito a essere in controtendenza. Tentiamo di vivere all'interno
dell'amore e forse avremo un futuro.
L'album si
chiude con una nota di speranza. Canzone dell'amore
lungamente atteso (e nel titolo non posso
fare a meno di notare un altro parallelismo con
il grande cantautore genovese), parla di chiavi
ritrovate, quelle chiavi dell'amore che si erano
perse in La Venere di carta. Come hai appena affermato,
sembra di capire che l'amore sia l'unico sentimento
capace di smuovere le coscienze, quindi il motore
per l'inizio della possibile condivisione di un
mondo migliore.
L'allusione
alla Canzone dell'amore perduto è fortemente voluta. Consciamente ho tentato
di scrivere un brano sulla gioia dell'amore che non suonasse zuccheroso, ma che
mantenesse in sé tutta l'intensità che si ritrova di solito nelle canzoni che
parlano di amori sfortunati. Spero di esserci riuscito. È stata una sfida per
me e un modo, credo, signorile e indiretto per omaggiare Fabrizio De André, che
in questi anni è stato oggetto di smaccati "tributi", la cui finalità, quasi sempre,
non era onorare il grande maestro ligure, ma riempirsi le tasche di grano.
Oltre a ciò, volevo chiudere l'album su una nota effettivamente positiva, di speranza,
di condivisione affettuosa con i miei ascoltatori, che voglio salutare con affetto
e sincera gratitudine alla fine di questa intervista. So di essere un privilegiato
ad avere qualcuno che mi ascolta. Ho un sito, www.michelegazich.it, dove mi si
può scrivere. Non sono una star, credo che sia evidente a tutti, ma sono un uomo
che cerca di portare avanti con forza e dignità la parte di vita che gli resta
da vivere. Rispondo personalmente a chiunque abbia voglia di scrivermi.
Quali sono i tuoi progetti per l'immediato futuro? Andare
avanti a fare ciò che sto facendo: scrivere e suonare. Auspico di proporre il
concerto de La nave dei folli in giro per l'Italia e altrove. Sono noto come violinista,
innanzitutto: sarò dunque, probabilmente, coinvolto, a vari livelli, con altri
artisti. All'interno di queste collaborazioni, spero, a un certo punto dell'anno,
di incontrare ancora Mark Olson. Negli ultimi due anni sono stato in giro per
Europa e Stati Uniti con Mark, per promuovere il suo album The Salvation Blues.
Mark è stato per me uno sprone: lui non scrive e non suona per la gloria o la
fama, ma per la salvezza. |