Andy White
Belfast Child


a cura di Marco Denti

Anche per il ragazzo di Belfast è arrivato il momento di tirare le somme e Andy White l'ha fatto l'anno scorso in occasione del trentennale del suo esordio, Rave On uscì nel 1986, confezionando un meraviglioso box, Studio Albums 1986-2016 con tutti i suoi dodici dischi, un elegantissimo libro di cento pagine compreso l'inedito Imaginary Lovers, che ora è la scusa per il nuovo tour italiano. Il cofanetto di Studio Albums 1986-2016 è fatto con una cura artigianale e certosina, ormai sempre più rara, ed è proprio la sua migliore espressione possibile.

Colto, affabile, gentile, ironico e appassionato, Andy White ha collezionato una carriera al di sopra di ogni sospetto, ricamandosi uno spazio tutto suo, canzone dopo canzone. Non solo: fedele allo spirito "do it yourself" con cui, dalle combattute strade di Belfast ha attraversato mezzo mondo (per approdare, infine, in Australia), Andy White è diventato un 21st Century Troubadour (come recita la sua autobiografia "on the road"), che viaggia leggero, con la chitarra, poco bagaglio e l'idea, inalterata anche dopo trent'anni e tutto il lavoro racchiuso in Studio Albums 1986-2016, che ci si possa ancora sorprendere, che ci sia ancora qualcosa di bello da scoprire, là fuori.

Studio Albums 1986-2016, il confanetto Andy White, una playlist per l'intervista

Abbiamo pranzato insieme, in una domenica di nebbia fitta, e dopo il primo brindisi è stato come trovare un amico che non sapevi di avere. Stessi dischi, stessi libri, stesse chitarre, stesse passioni. Ancora prima di cominciare le formalità dell'intervista, abbiamo parlato per mezz'ora del Nobel a Bob Dylan e di Patti Smith a cui, emozionata, sono sfuggite le parole di Hard Rain, e di come tutto il premio accademico più prestigioso dell'universo sia stato trasformato in una sorta di happening della Beat Generation. Evviva. Arrivati a questo punto, avremmo potuto parlare per ore, perché, come diceva Jack Kerouac, "comunque tu viaggi, che ti diverta o no oppure sia costretto ad abbreviare il tuo giro, impari sempre qualcosa e impari a cambiare la tua opinione", ma il protagonista era pur sempre Andy White che, con Belfast incastrata nell'anima (viaggia ancora con entrambi i passaporti, inglese e irlandese), ha altre storie da raccontare. Abbiamo iniziato rispondendo al dovere di illustrare i dettagli di Studio Albums 1986-2016, siamo arrivati a finirci le frasi a vicenda e ci siamo lasciati con un aneddoto dell'indimenticabile Carlo Carlini.


L'intervista
a cura di Marco Denti


La prima sorpresa in Studio Albums 1986-2016 è Imaginary Lovers. Un intero cofanetto retrospettivo e, in fondo, un disco inedito. E non una raccolta di outtakes, o un disco dal vivo. Proprio un disco tutto nuovo.

Imaginary Lovers è stata una sorpresa, sì, non per me, ovviamente, perché l'ho sempre considerato parte del cofanetto fin dall'inizio, anzi l'avevo sempre inteso come una delle due parti dello stesso disco. L'altra è How Things Are e all'inizio pensavo di fare uscire un album doppio, ma mi sembrava eccessivo. E poi devo dire la verità, non ho sentito così tanti doppi album buoni, ma per me How Things Are e Imaginary Lovers rappresentano un momento felice, molto creativo, in cui stavo scrivendo non tanto per un album o per un progetto, ma soltanto per il piacere di scrivere delle canzoni, perché devi scriverle, punto. Quelle di How Things Are e Imaginary Lovers sono arrivate così, ma nel frattempo stavamo lavorando al libro e al cofanetto per cui ho pensato a chi aveva già comprato How Things Are e gli altri dischi e che non sarebbe stato giusto lasciargli senza l'opportunità di conoscere Imaginary Lovers e così abbiamo deciso di pubblicarlo anche in versione singola, fuori dal box.

La seconda sorpresa è che stai già lavorando a un altro disco. E' vero?

Guarda, questo box è come se fosse uno spartiacque, e adesso mi sento molto più libero. Ogni artista in un certo senso cerca sempre di rinascere, di trovare una nuova condizione, di viaggiare verso spazi inesplorati, come ho fatto quando sono partito per l'Australia, o verso nuove relazioni, o prova a riscoprire il punk o a riascoltare Bob Dylan. Ecco quando ho finito il box, ho cominciato a sentire il bisogno di scrivere, e, sì, ho quest'urgenza, ma non ho ancora buttato giù niente di preciso perché ritrovare tutte quelle canzoni è stato un altro viaggio, che mi ha colpito molto.

Detto di Imaginary Lovers, Studio Albums 1986-2016 è anche l'occasione di un bel tuffo nel passato. Cominciamo con ordine e partiamo dagli inizi

Mah, sai, era un momento strano. C'erano i Waterboys, c'erano gli U2, erano tutti grandi gruppi, e mi piacevano, ma sono cresciuto a Belfast con il punk, ascoltavo T. Rex o Lou Reed, Walk On The Wild Side... La prima volta che l'ho sentita su Radio Luxembourg mi sono chiesto, ma cos'è un radiodramma? Walk On The Wild Side, wow! Mi piaceva tutto, la progressione degli accordi, che è molto semplice, la linea del basso, la storia, i personaggi... Ma era anche un momento in cui cominciavano a emergere figure come quella di Billy Bragg, che affrontava temi politici e per me era molto importante perché, sai, essendo cresciuto a Belfast, ho capito ben presto che è tutto politica, che puoi fare quello che vuoi, puoi provarci in tutti i modi, ma non puoi togliere la politica dalla vita. Ho imparato da mia nonna, che era un'insegnante di piano, un vero personaggio che veniva dalla campagna, aveva studiato a Londra e ha cresciuto una famiglia, suonando il pianoforte. Era qualcosa di insolito, dopo la seconda guerra mondiale, nella seconda metà degli anni quaranta e negli anni cinquanta, ma è stata importante perché ha dimostrato che la musica può diventare una vita. Per rispondere alla tua domanda: ho cominciato a scrivere poesie, quando ero molto piccolo. La prima poesia l'ho scritta che forse avevo nove anni, Riot, ed era basata su una rivolta, ed è sempre stato naturale per me, esprimere con le parole quello che sentivo, come lo sentivo. Poi ho cominciato a suonare, ma quando ho sentito Desire, un disco meraviglioso, che amo ancora oggi.. Quelle canzoni, quei personaggi, quelle storie, Emmylou Harris... Poi ho sentito Working Class Hero alla BBC e mi ha stupito. Conoscevo i Beatles, ma quando ho sentito Working Class Hero, quella dichiarazione, quel modo di esprimersi, quel coraggio, beh, mi sono detto, allora si può fare.

E così quando hai esordito, nel 1986, eri già una rarità. Un songwriter con la sua chitarra acustica.

Sì, è stato curioso. Sai, dentro il suono di un gruppo, ti puoi nascondere, ma se devi scrivere le tue canzoni, ne devi leggere di libri. Adesso che ne ho letti un bel po', posso dirlo... Allora, non eravamo in tanti, c'era Lloyd Cole e credo che Rattlesnakes resti un capolavoro. Voglio dire, poi ha scritto altre canzoni, molto più belle, secondo me, ma quel disco aveva qualcosa di speciale. C'erano gli Aztec Camera, ti ricordi, Roddy Frame? In televisione andavano Wham e Duran Duran, poi arriva questo ragazzo vestito con la giacca a frange, come Neil Young, con tutti quei versi meravigliosi. Credo che la nostra sia stata una reazione a tutte quelle canzoni che avranno fatto pure un sacco di soldi, ma erano soltanto dei ritornelli insignificanti. Ma, più di tutto, per me è stato molto importante il punk, e non soltanto dal punto di vista musicale. A Belfast c'era una scena importante, e il punk non era settario. La musica folk aveva i suoi temi, e seguiva le divisioni della città. Il punk no, era tutto, era energia.

In effetti riascoltando i tuoi dischi in Studio Albums 1986-2016 mi ha sorpreso che tu non abbia approfondito, come sembrerebbe ovvio, le tue radici tradizionali.

Amo la musica tradizionale, ma non ci tornerò sopra. L'ho fatto un po' in Himself e con Broken Hearted in Kiss The Big Stone, ma non sono abbastanza esperto, non sarei in grado di interpretare un repertorio così vasto, di capire davvero come farlo mio. E poi, sai a Belfast era obbligatorio suonare le "rebel songs", da una parte o dall'altra, e in qualche modo voleva dire schierarsi. Per me era: no, dimenticatevi le "rebel songs", voglio Teenage Kicks.

Cosa avevano di così speciale, gli Undertones?

Sai, all'epoca alla radio andavano gli Eagles o i Fleetwood Mac o gli Slade e ti sembravano distanti anni luce. E non è una questione di gusto, estetica, direi, perché amo le canzoni che hanno grandi armonie e i versi dei ritornelli che ti catturano. Il fatto è che Teenage Kicks era registrata in un quartiere come il tuo, gli Undertones erano gente come te, la musica era vicina, e non era solo la musica. Era l'attitudine: se vuoi, puoi farlo. Quello era lo spirito e quando è arrivato Billy Bragg... Okay, amavo Lou Reed e Bob Dylan, e lui non faceva niente di diverso, ma lo faceva con quell'attitudine punk. Se hai qualcosa da dire, dillo. Ed è stato molto importante per me.

In effetti in Rave On si sentono una convinzione e un'energia che sono rimaste intatte, ancora adesso.

Quando ho inciso Rave On ci ho messo tutto quello che conoscevo perché non pensavo proprio che fosse l'inizio di una carriera. Quando ho scritto The Big Rain non era soltanto l'ultima canzone di Rave On: era proprio l'ultima che avevo e da allora, per me, tutte le ultime canzoni di ogni singolo album possono essere le ultime.

E quella copertina rubata ad Another Side Of Bob Dylan, non ti sembrava esagerata?

Mah, no, sai, è proprio il contrario: volevo fare come i Clash di London Calling che avevano reso omaggio al primo disco di Elvis. O Frank Zappa che in We'Re It Only For The Money riprendeva a modo suo la copertina di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Anche il titolo era un mio tributo a Van Morrison che a sua volta richiamava John Donne o William Blake. Credo sia una catena che non si può interrompere, questo era un po' il senso.

Da allora sono passati trent'anni, non c'è mai stato un momento in cui ti sei detto: sono arrivato.

No, non mi vengono in mente molti artisti in grado di comprendere a fondo quello che stanno facendo, di esserne coscienti. Penso a Picasso, e forse a John Lennon, ma per il resto sono convinto che di solito non sai proprio dove stai andando: provi solo a cercare qualcosa di nuovo ed è quello che ho cominciato a fare subito dopo aver concluso il lavoro per il Studio Albums 1986-2016. Mi ha ispirato molto vedere il documentario sul lavoro di Tony Visconti, il produttore di David Bowie, sui nastri di Heroes. Ecco, vorrei lavorare con quell'attenzione, cercando di fare qualcosa di grande.

Hai lavorato con John Leckie, noto per essere il produttore dei Radiohead, così come con Stephen Fearing, tra gli altri. Cosa ti spinge a una collaborazione piuttosto che a un'altra?

L'ho fatto per anni. Quando ho cominciato ero molto arrogante e poco consapevole delle mie capacità, che voleva dire altra arroganza. Sapevo di avere qualcosa di dire, ma non sapevo suonare o cantare abbastanza bene da potermi confrontare con qualcuno, almeno fino a Destination Beautiful, quando ho cominciato a scrivere con Tim Finn e Liam Ó Maonlaí degli Hothouse Flowers, con cui ci siamo seduti attorno a un tavolo, molto amichevolmente, a lavorare alle canzoni. E siamo rimasti molto amici. E' successo lo stesso con Stephen (Fearing) o John (Leckie) che ha lavorato a Garageband: non riesco a lavorare se non c'è un'amicizia, una complicità. Ho provato a scrivere con un'ottica, come dire, un po' più professionale, ma proprio non ci riesco, non mi appartiene.

C'è qualcuno con cui vorresti collaborare?

Mi piacerebbe prima o poi fare ancora un disco con Rod McVey, che ha prodotto i miei primi cinque album. Quello è un modello di collaborazione che mi piace, poi ci sono così tanti musicisti straordinari che ho in mente un mio super gruppo.

Dimmi i nomi.

Ah, no, non ci penso proprio.

Almeno uno.

Mi piace tantissimo Kate Bush, quando l'ho sentita la prima volta mi sono detto: ma chi è? Come fa? Sai, certo, sappiamo che tutto viene dalle parole, che richiedono attenzione, ma la musica è importante, e se ci pensi, lei, con quella voce straordinaria riesce sempre a inserirsi in grandi atmosfere. Penso sia unica.

Da Kate Bush a Peter Gabriel, ho sempre avuto l'impressione che un certo uso degli effetti, dell'elettronica in generale, contribuisca non poco a creare quelle particolari atmosfere. Lo dico non solo perché hai inciso Garageband ai Real World, ma anche perché non hai mai avuto paura di confrontarti con questi strumenti.

Ogni album nasce un po' a modo suo, Rave On è nato sulla chitarra acustica e i primi dischi avevano il suono delle canzoni che amavo, i Beatles, i Rolling Stones, Dylan, ma c'è sempre stato qualche piccolo groove, qualche ritocco, persino in Rave On, se devo dire la verità. E lo dico senza problemi perché la gente pensa che io sia un songwriter con la chitarra acustica, ma in realtà mi piace fare un po' di tutto e, di nuovo, è come il punk, non hai bisogno di chissà cosa. Si può sperimentare moltissimo, con costi molto bassi, e dei risultati immediati, ma la mia opinione è che, alla fine, gli strumenti siano relativi e servano soprattutto in funzione delle canzoni, del disco, del lavoro che stai facendo in sé. L'importante è arrivare a qualcuno. Sono stato fortunato di vedere alcuni miei dischi diventare un parte importante per il mio pubblico. Sai, non ho milioni di fans, ma ho un rapporto molto stretto con gran parte della mia audience e con molti è stato come avvicinarsi al loro cuore, alla loro vita, attraverso i dischi. In Studio Album 1986-2016 li abbiamo messi tutti, ma per me, se proprio devo scegliere, valgono soprattutto Rave On o Himself e una parte di Boy 40.

Ho sempre avuto l'impressione che Boy 40 fosse un disco più importante per te, che per il pubblico.

Yeah, capisco cosa vuoi dire, e, sì, in quel momento stavo riflettendo molto su un'idea di dimensione spirituale: angeli, demoni, stelle, pianeti, distanze. Boy 40 è stato il primo disco che ho inciso dopo che mi sono trasferito in Australia, che è stato soltanto il più evidente di tanti cambiamenti miei, personali, di quel momento.

Anche Streets Scene From My Heart in Destination Beautiful mi è sempre sembrata una canzone molto intima.

Sì, però alla fine resto convinto che ognuno è libero di immaginare quello che vuole ascoltando la canzone. D'altra parte, con Streets Scene From My Heart stavo immaginando un cuore grande come una città, come se fosse possibile camminarci in mezzo ed era come... Come si può descrivere?

Walk On The Wild Side...

Ah, sì, esatto... Oppure è come tutte le volte che Bruce Springsteen canta di andarsene, solo che il mio cuore è la città dove sta succedendo, non posso fuggire via. Il titolo viene da una poesia molto lunga che avevo scritto, ma che non mi convinceva. La poesia l'ho buttata via, ma l'ultimo verso mi sembrava cogliesse il senso di qualcosa e da lì sono arrivato a Streets Scene From My Heart.


Se dovessi scegliere una canzone che ti rappresenta più di altre, direi Speechless su Out There. Lì dentro c'è proprio tutto.

Beh, grazie, ma sai, si può restare Speechless, senza parole per motivi, per amore, per orrore, per distrazione, per meraviglia. Mi ha sorpreso Dylan che ha detto di essere rimasto senza parole quando gli hanno conferito il Nobel. Prova a pensarci, Dylan che dice: sono rimasto senza parole. E l'hanno premiato proprio per le sue parole. Incredibile. Mi ricordo quando sono andato in America dopo anni che leggevo, vedevo, ascoltavo America e... Sono rimasto senza parole. Ho dovuto rileggere Sulla strada, dopo, perché un conto è leggere Jack Kerouac quando hai diciassette anni, come l'ho letto io, e un conto è leggerlo dopo essere stato là. Ecco, quella voglia di buttare dentro tutto, di dire tutto, che era lo spirito di Rave On, che è quello che ho sempre cercato di fare credo, si senta in Speechless ed è quello che mi sentivo di dire in quel momento. Crescendo a Belfast ho conosciuto la guerra da vicino, credimi, e quando l'Iraq ha invaso il Kuwait e tutto ciò che ne è seguito, ho capito che le nostre vite sarebbero cambiate per sempre. Dal punto di vista musicale credo sia un po' lo stesso, Speechless è stata frutto di un parto laborioso, con la voce di Liam (Ó Maonlaí) e tutti quegli inserti di musica tradizionale. Credo che Out There fosse un grande disco, con canzoni articolate come Speechless, ma anche Looking for James Joyce's Grave. Non credo che nessuna etichetta discografica lo prenderebbe in considerazione, oggi, con canzoni così lunghe.

Con questo, lo spirito punk è stato abbandonato?

Ma no, rimane sempre. Certo, capisco cosa vuoi dire: nelle canzoni punk, in tre minuti, se hai qualcosa da dire, lo dici. Ma ci sono storie che non ci stanno in quei tre minuti. C'è qualcosa che ha bisogno di più spazio, penso sia inevitabile.

Allora qual è la parte più difficile, quando affronti una canzone?

La parte più difficile... E' quando non succede... O, meglio: la parte più difficile è arrivare a uno stadio in cui dici, okay, ho raggiunto il massimo, qui, ho fatto il possibile. Mi è capitato con Looking for James Joyce's Grave, è stata una di quelle canzoni che una volta scritta, la guardi e dici... Ti chiedi...

Da dove arriva?

Esatto, da dove arriva? Ecco, Lonely International Guy da Imaginary Lovers è un'altra, anche se ci ho messo una vita a sistemare una parola qui e una parola là. Ci sono canzoni per cui ci vuole un sacco di tempo, ci sono canzoni che arrivano da sole, ma per me l'importante è che in un modo o nell'altro mi sorprendano, così come mi sono sorpreso adesso a pensare che sono trent'anni che scrivo canzoni. Ci sono canzoni cui devi lavorare, lavorare, lavorare, è una questione di disciplina. Leonard Cohen ne parlava spesso, ma...

Era Leonard Cohen.

Sì, esatto, io sto cercando di essere più spontaneo. Per cui la parte più difficile è avere una disciplina perché prima o poi tutto capiti in modo spontaneo.

Vedo che non hai esitazioni a citare le tue fonti. In tutti questi anni quali dischi sono rimasti come punti di riferimento?

Te ne dico, uno: Van Morrison, Astral Weeks, in quel disco c'è tutto.

Beh, d'accordo, ma facciamo un piccolo sforzo.

Okay, Red Garland Trio, tutta roba molto groovy, poi Frank Sinatra, In The Wee Wee Hours, Rolling Stones, Let It Bleed, Beatles, Hard Day's Night, Joni Mitchell, Blue, Nick Drake, Five Leaves Left, David Bowie, Hunky Dory. Mi fermo qui.

Sei sempre in tour, c'è un ricordo della tua vita on the road a cui sei affezionato, in particolare?

Guarda, ho un ricordo bellissimo di Carlo Carlini. Non ho mai capito bene come organizzasse i suoi tour, c'era sempre qualcosa che poteva andare storto all'ultimo momento o che non era chiaro o che ti sfuggiva, ma alla fine erano tutti contenti, i promoter, i musicisti, il pubblico, lui più di tutti. Non ho mai capito fino in fondo come facesse, ma c'era della magia. Credo che tutto ciò fosse più il risultato del suo amore per la musica e per la gente, che per l'organizzazione in sé, che era sempre un po' traballante e imprevedibile.

In effetti ricordo che Joe Henry ha detto che andare in tour con lui era un po' come il servizio militare: andava fatto, una volta nella vita.

Ah, sì, l'idea era più o meno quella. E comunque una notte tornando da non so quale concerto, stavo guidando questo furgone, un Ducato che aveva visto di sicuro tempi migliori, ed entrando nel casello dell'autostrada, ho sbandato un po' e ho urtato con tutta la fiancata. Ero mortificato perché pensavo al danno che avevo appena fatto ma Carlo, seduto a fianco a me, con il basco calato sugli occhi e quell'eterna sigaretta in bocca, senza battere ciglio, mi disse: "Non preoccuparti, è soltanto lamiera".


    

 


<Credits>