File Under:Crazy
Horse revival di
Fabio Cerbone (05/11/2012)
Dunque
Americana
era soltanto l'antipasto, una sorta di sgangherata prova generale per riaccendere
la fiamma dei Crazy Horse. Pochi mesi infatti separano l'uscita di quel bizzarro
progetto di rivisitazione della tradizione folk dalla cascata di note e jam chitarristiche
di Psychedelic Pill, quintessenza di un suono e esplicita, compiaciuta
auto-celebrazione del binomio Neil Young & Crazy Horse, finanche nel solleticare,
richiamare, copiare più volte melodie e riff appartenuti a vecchi cavalli di battaglia.
Giudicando l'operazione nel suo complesso viene quasi da pensare che il suddetto
Americana, per quanto scombinato, conservasse comunque un senso minimo di progettualità,
recuperando un sound e un'estetica che hanno fatto scuola. Questi novanta minuti
a rotta di collo sulle ali dell'entusiasmo, doppio monumentale album e ardua scalata
all'ascolto, hanno invece il proposito di scardinare ogni indugio, di assecondare
la pura gioia, un po' solipsistica, dell'intreccio strumentale fra i musicisti.
Forma soprattutto e non sostanza dunque, che è oggi quanto mai liquida,
dispersa in un tre lunghissime, estenuanti improvvisazioni sul tema elettrico,
inframmezzate da un corteo di satelliti country rock dal sapore arcigno e settantesco.
L'asse è quello di Everybody Knows This Is Nowhere, Rust Never Sleeps e Ragged
Glory, tre decenni a dividerli, magari con il codazzo di imprecisioni e arruffata
autarchia di Broken Arrow e Greendale, tappe diverse di un unico lungo sodalizio.
L'eccesso liberatorio di Psychedelic Pill è tutto qui, nella sua forte identità,
che è un po' il pregio e il difetto dell'uomo e del musicista Neil Young: un gigante
certo, ma ingovernabile e spesso irritante quando sommerge di effetti da quart'ordine
la spaziale title track (per fortuna ripresa nel finale in una versione "ripulita"
e graffiante) o peggio si lancia nei ventisette minuti, errabondi e un po' inconcludenti,
di Driftin' Back, piazzandoli persino in apertura
come guanto di sfida (o con me o contro di me in questa avventura, sembra dirci
Neil, anche quando comincia a cantare all'infinito la litania nonsense "I used
to dig Picasso"); lirico all'inverosimile e trascinante quando spinge le note
della sua Gibson sul crinale di feedback in She's Always
Dancing e Walk Like a Giant, addolcendo
poi quest'ultima nostalgica ballad elettrica (in puro stile Like a Hurricane)
con quel fischiettio che ti entra subito in circolo.
Prendere o lasciare:
in Psychedelic Pill non c'è nessuna rinascita artistica (non ce n'era bisogno),
certamente non uno sconquasso del presente (come lo furono in modi diversi Rust
Never Sleeps e Ragged Glory), non c'è neppure una sfida eccessiva alle regole
(perché tutto è maestosamente, inesorabilmente Crazy Horse all'ennessima potenza),
c'è piuttosto uno sguardo quasi appagato, quel darsi una pacca sulla spalla fra
amici, rotolandosi nella solita polvere rock (Born in
Ontario e Twisted Road hanno il
carattere del cavallo pazzo di Zuma) o fra i placidi saliscendi di Ramada
Inn, altra galoppata che pare non finire da nessuna parte. Ci fu un
tempo- negli anni di un disperato David Geffen che non riusciva ad ottenere un
album spendibile per il mercato - in cui Neil Young venne accusato di "non fare
Neil Young", proprio perché artista troppo libero per non seguire il suo istinto.
Oggi forse, nella traboccante esplosione di Psychedelic Pill, lo sta facendo fin
troppo? Le ragioni stanno nella contemporanea pubblicazione del suo libro di memorie
"Waging Heavy Peace": gli anni passano inesorabilmente e c'è bisogno
più che mai di riconoscersi con i vecchi compagni, anche dentro una "pillola psichedelica"
che stimoli le sinapsi dei ricordi. Allora i versi d'amore di Driftin' Back
(How many years now together/ All those years of ups and downs) possono persino
diventare la parafrasi intera di un disco.