Neil Young & Crazy Horse
Americana
[
Warner  2012
]

www.neilyoung.com


File Under: rusty americana

di Fabio Cerbone (07/06/2012)

I volti di Neil Young e dei Crazy Horse sono letteralmente incollati su quelli originali di una foto del 1905: è stata scattata su una Locomobile Model C dalle parti di Ponca City, Oklahoma e fra i suoi passeggeri si staglia il leggendario capo indiano Geronimo. Non rinuncia alle sue radici il "Cavallo Pazzo" canadese e in un disco che si intitola programmaticamente Americana rispolvera l'iconografia di una band e di un suono che sono diventati uno standard irrinunciabile del rock'n'roll. Contraddittorio, persino irritante, Neil Young decide di riaccostarsi alla tradizione, ma nell'imbastire un omaggio alla memoria del folklore americano scompagina ogni certezza. Invece di scegliere oscuri brani, assumendo un tono da ricercatore acuto, opta per immortali classici cantati persino dai bambini a scuola, dando in pasto, tra le altre, l'ennesima variante di This Land is Your Land di Woody Guthrie (a dire il vero uno dei brani meno interessati...); piuttosto che armeggiare con prevedibili sonorità rurali d'impronta acustica, chiama a raccolta i vecchi pard (compreso il desaparecido Frank Sampedro, inspiegabilmente escluso dalla precedente rimpatriata, Greendale) e assalta all'arma bianca il repertorio con il marchio di fabbrica della band, ovvero un country rock sgangherato all'inverosimile; infine intitola, come anticipato, l'album Americana, ma chiude, lui canadese, sulle note dell'inno britannico God Save the Queen (marziale ed elettrica), un po' come se qualcuno andasse in Algeria ad intonare la Marsigliese.

Prendere o lasciare: conclusi i quasi sessanta minuti di improvvisazione live, buona la prima e chi se ne importa delle imprecisioni, avrete ancora la strana sensazione di essere stati presi per i fondelli, ma il sorriso non lascierà la vostra faccia. Infilata la spina, attacati i jack negli amplificatori, alzata al massimo la manopola del gain e via verso i massimi livelli di saturazione, Americana è un goffo, adorabile divertissment che mette alla berlina la sacralità del passato: contrariamente alle apparenze non si inchina agli ossequi dovuti e lacera le elementari melodie di Oh Susanna e Clementine, capovolgendole in sbilenche, ubriache ballate rock, sospinte da abrasivi riff di chitarra e stranianti cori fanciulleschi. La murder ballad Tom Dula (riprendendo il nome di battesimo del vero assassino narrato nella folk song Tom Dooley, portata al successo dal Kingston Trio) in tal senso è un prototipo dell'approccio generale: tanto approssimativa quanto ossessiva in quella litania continua del coro che echeggia il nome del condannato a morte, mentre i Crazy Horse traccheggiano assonnati sulle note della chitarra di Young.

La memoria torna dunque alla formula dell'immortale Ragged Glory: era il 1990 e il loner canadese riemergeva sulla ribalta come padre putativo del grunge. Pur mancando le vette artistiche di quel disco, Americana si rannicchia su simili intuizioni: il country rock a rotta di collo in Travel On, i grovigli elettrici di High Flyin' Bird e della feroce Jesus' Chariot, infiammate dalla solista di Young che maneggia la leva della Gibson e strappa le corde come ai bei tempi. Te li immagini allora tutti stipati in un vecchio granaio, tra il profumo del fieno e la puzza di bruciato delle valvole, a stonare inni folk sfigurati e un po' marinareschi. A volte la situazione sfugge di mano, così che ad una galoppante e scardinata Gallows Pole controbatte l'inverosimile rilettura del classico doo-wop dei Silhouettes Get a Job, talmente comica da farsi perdonare per l'ingenuità. In tutta la sua apparente sconsideratezza, Neil Young continua ad essere nello stesso tempo un genio provocatore e un mirabile filibustiere.


   


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