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california dreamin' di
Fabio Cerbone (01/11/2013)
Il
nuovo Re Mida della psichedelia californiana aggiornata al 2013, Jonathan Wilson,
è tornato sul luogo del delitto e questa volta con sogni e musiche ancora più
ambiziosi, imbastendo la sua "fanfara". Prosecuzione delle visioni dal Laurel
Canyon che Gentle
Spirit aveva declinato in una forma un briciolo più cantautorale e
desertica, Fanfare espande la musa di Wilson in mille direzioni,
confermandolo musicista, autore, produttore in grado di saccheggiare con intelligenza
e modernità un bagaglio di influenze infinite, scolpite nella memoria storica
del rock'n'roll. L'età è quella dell'oro, a cavallo tra la fine delle utopie dei
sixties e la lunga scia del decennio successivo: dentro Fanfare c'è una sequela
di rimandi e citazioni, ma raramente trascritte con sola compiaciuta furbizia.
Che Wilson sia un autentico principe dell'evocazione rock è un dato che
ormai diamo per scontato: le sue ballate sospese e rarefatte, così come i suoi
turbini psichedelici rappresentano una sorta di "madeleine" di proustiana memoria
per ogni ascoltatore: assaggi i liquidi accordi di Dear
Friend o la progressione della pianistica Lovestrong,
in una jam finale dal carattere blues, e rammenti subito certa magniloquenza appartenuta
ai Pink Floyd spaziali di The Dark Side of The Moon; ti imbatti nelle crude chitarre
elettriche di Illumination e torni subito
all'apice del suono Crazy Horse (oltre al fatto che la melodia ricorda davvero
troppo Danger Bird, brano contenuto in Zuma); ti abbandoni alla dolcezza country
rock di Moses Pain e rotoli in un campo di
armonie vocali e grandi orizzonti californiani tra Eagles e Jackson Browne (nel
mezzo la chitarra dell'ospite Mike Campbell, che riporta direttamente a David
Lindley). Fanfare è "bigger than life" nella concezione, nel minutaggio (al limite
della capienza di un cd), nelle aspirazioni e finanche nelle collaborazioni, chiamando
senza mistero a raccolta i propri padri putativi: David Crosby e Graham
Nash immancabilmente, che trascinano il capolavoro del disco, Cecil
Taylor, su sentieri astrali, tra percussioni e combinazioni di cori,
prima di una splendida coda; oppure Jackson Browne, che si riconosce nel
figlioccio e gli offre corda nella citata Moses Pain. Di Mike Campbel si è già
detto e a lui si affianca l'altro inseparabile membro degli Heartbreakers Bemmonth
Tench: Wilson è stato d'altronde in tour con Tom Petty e un po' di scintillante
frenesia pop rock gli è rimasta appiccicata addosso. Non si spiegherebbe altrimenti
Love to Love, la più immediata e rock dell'album,
con echi byrdsiani nello scintillare delle chitarre.
Direttore d'orchestra
di se stesso, istrione che manipola una decina di strumenti e trova spalle ideali
in alcuni fidati strumentisti (sax e flauto di James King, ad esempio), Wilson
compie assolute piroette tra pop barocco (la stessa Fanfare
in apertura, una Future Vision che finisce
nello smalto luccicante degli Steely Dan), folk psichedelico (c'è anche una singolare
ripresa di Fazon, brano dei dimenticati Sopwith
Camel declinato con passo funky e un sax che profuma di psychedelic soul) ed episodi
più intimi - tra i quali Her hair Is Growing Long o la chiusura placida
di All the Way Down, con un gentile mantra
alla chitarra acustica - che richiamano la serenità da "peace & love" del disco
precedente. Ogni volta però cambiando passo, accelerando e decelerando nel corso
della stessa canzone, lasciandosi trascinare dal gusto innato per l'improvvisazione.
Fanfare è un disco ridondante, complesso, persino indisponente se volete,
ma riserva sorprese ad ogni curva e non staziona lontano da quella sensibilità
che Fleet Foxes, Dawes, Midlake e molti altri hanno rimesso in circolo nell'american
music contemporanea: anzi, ne rappresenta forse la sublimazione assoluta, il possibile
apice dell'intero movimento.