Niente male per un
ragazzo del North Carolina: Jonathan Wilson nasce nel posto sbagliato
e nel tempo sbagliato ma non si perde d'animo, conquista il sole del Laurel
Canyon, California, rivivendo la stagione lontana del folk rock più acido
e onirico, prendendosi sulle spalle il peso di una scena in fermento.
Songwriter, musicista, produttore, Wilson può essere a buon titolo considerato
uno dei "burattinai" più attivi nella riscoperta di certa West Coast:
nel suo curriculum vanta innanzi tutto le collaborazioni, o forse sarebbe
meglio dire le affinità elettive, con Will Oldham (Bonnie Prince Billy),
J Tillman (Fleet Foxes), Jonathan Rice, Jenny Lewis, Chris Robinson, Vetiver
e molti altri protagonisti del nuovo folk americano, quindi le apparizioni
in lavori importanti di Elvis Costello e Eryka Badu, infine la cabina
di regia di nuovi talenti quali i Dawes. Wilson ha fondato infatti un
proprio studio di registrazione (Five Star), trasferendosi nella zona
di Echo Park, Los Angeles, e seguendo le regole ferree dell'analogico
ha cominciato ad attrarre musicisti da ogni angolo del paese. Lista infinita
e incompleta, la sua firma sbuca da ogni parte, anche se il ruolo di autore
non lo ha affatto dimenticato in un cassetto.
Carriera travagliata però la sua: un disco per la Warner negli anni '90
con i Muscadine (formati insieme a Benji Hugues) finito presto nel dimenticatoio,
un primo parto solista nel 2007 (Frankie Ray) per lungo tempo neppure
pubblicato ufficialmente, oggi un'improvvisa curiosità intorno alla sua
figura di mentore che gli permette di accasarsi alla Bella Union e uscirsene
con questo lungo, trasognato, ambizioso Gentle Spirit.
Settanta minuti e passa di viaggi onirici a cavallo di ballate acustiche
perse nell'estasi, di riverberi e fughe chitarristiche, tutto nel segno
del David Crosby più trasognato, del Tim Buckley meno sperimentale, del
Neil Young più malinconico, non mancando di "pasticciare" con le delicatezze
del pop e di una psichedelia tenera (la voce è sussurata e impalpabile,
fin troppo a ben vedere), quasi bucolica, immerso in quell'epoca di speranze
e visioni ad occhi aperti.
Un atto d'amore certo, una piena coscienza del proprio retaggio, che apparirà
a tratti anche anacronistica (Natural Rhapsody
è la quintessenza di questo sound), eppure regala momenti di grande e
stupefatta musica: le spirali di Desert Raven
e quel fraseggio insistente della chitarra, l'interminabile cavalcata
in tema western di Valley of the Silver Moon,
la circolarità acustica della melodia di Ballad
of the Pines, da qualche parte fra il citato maestro Crosby
e il mai dimenticato Gene Clark del'esordio White Light, o ancora i cambi
di umore e di cadenza in Can We Really Party
Today?, i Crazy Horse in veste psichedelic-soul di
The Way I Feel, sospesa nell'aria da un'organetto irresistibile,
persino echi di un acid folk che guarda alla sponda inglese (Rolling
Universe). Logico che per imbastire un tale omaggio Wilson
si sia servito di tutte le conoscenze accumulate negli anni: hanno risposto
tutti in effetti, dai già ricordati Chris Robinson e Johnathan Rice a
Andy Cabic (Vetiver), Barry Goldberg, Gary Louris, Josh Grange, Gary Mallaber...quasi
si trattasse di un If I Could Only Remember My Name aggiornato
alla generazione 2011. Con tutte le distanze del caso, sia detto, ma ciò
non toglie nulla alla bellezza di questo disco. (Fabio Cerbone)