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beard folk di
Fabio Cerbone (01/10/2012)
La
storia a lieto fine di Magic
- disco un po' autarchico e dalla vita travagliata che trovò uno sbocco proprio
in casa Anti, rivelando al mondo la voce e il talento di Sean Rowe - lasciava
ben sperare per un prosieguo, o meglio una definitiva imposizione di questo rabbuiato
songwriter newyorkese. Saranno ancora troppo pochi quelli che si accorgeranno
di Sean Rowe, ma The Salesman and the Shark non lascia dubbi sulle
qualità misteriose, quasi "magiche" parafrasando il suo predecessore, di questo
autore. Una vocalità baritonale che cala la sua stentorea forza su buona parte
del nuovo materiale, senza sterzate brusche, semmai approfondendo il discorso
avviato con una maturità più spiccata, anche con una certa malizia. Di fatto è
questo l'album delle sua consacrazione, quell'impuro intreccio di intimo e drammatico
che dona alle sue canzoni un fascino particolare, anche quando ti accorgi che
sono in buona parte interpretate in prima persona, con molta franchezza. Magari
non sarà un maestro della metafora e del racconto, ma in fatto di scrittura folk
Rowe offre un'impeto di potenza e bellezza che rifugge dal solito minimalismo
acustico, per costruire ballate scure, semplici e complesse allo stesso tempo
(la classicità virata al country soul di Old Shoes
e Thunderbird è, ad esempio, da manuale).
La produzone questa volta è uscita dal guscio della sua camera, svolgendosi
presso gli storici Vox Recording Studios con Woody Jackson, interessante musicista
californiano già al lavoro con l'affascinante chanteuse Eleni Mandell. Allargando
lo spettro sonoro con un'elegante sezione d'archi, accentuando i ruoli di pianoforte
e organo, e marcando una presenza più spiccata di compagne femminili (e non le
ultime arricvate, trattandosi di Isobel Campbell, Petra Haden e Inara George,
quest'ultima nel duetto struggente di The Wall)
The Salesman and the Shark vive sulle intuizioni di Magic, ma ne esalta le prospettive
con una sagezza e una classicità che in fondo erano il fulcro di Sean Rowe sin
dagli esordi. Ecco allora un susseguirsi di placidi walzer, sontuose ballate dal
retrogusto soul e torbidi blues da ore tarde, che lanciano a briglia sciolta la
voce del protagonista, vero elemento istrionesco dell'album, fin dalla romantica
coralità di Bring Back The Night. Per l'afflato
sentimentale e notturno si tirerà ancora e inevitabilmente in ballo il nome di
Leonard Cohen (e al seguito, in versione lupo mannaro, quello di Tom Waits), volendo
essere più "moderni" anche il Mark Lanegan più rustico,
ma è pur vero che le suggestioni di Flying
e The Lonely Maze (il tremolio delle chitarre
da qualche parte ricorda l'eleganza degli Spain, giusto per restare nei paraggi
in fatto di ascendenze) hanno ormai una vita propria, una personalità che non
deve chiedere conto a nessuno.
Gli episodi che spezzano questa generale
atmosfera di incanto - tra le carezze di Signs e l'ancestrale folk per
acustica e archi di The Ballad of Buttermilk Falls,
altra dimostrazione della fascinazione di Rowe per il selvaggio americano - sono
la sensuale e sinistra Joe's Cult, qui si
davvero irrimediabilmente Waits-dipendente e forse sin troppo prevedibile, il
ruzzolante blues tzigano di Horse, travolgente
canzone a due tempi, e infine la sua trasfigurazione in chiave sixties tra i riverberi
western surf di Downwind, influsso niente
affatto inedito per Rowe, che già appariva in superficie nel citato Magic. Riuscendo
ad essere classico e ambizioso al tempo stesso, mantenendo un'intesa in presa
diretta e una certa organicità, The Salesman and the Shark è la
conferma che ci aspettavamo.