C'è ancora spazio per qualche storia a lieto fine in questo pazzo mondo musicale:
così può capitare di inciampare in un disco "magico" (in tutti i sensi) e scoprire
che ha una storia lunga e travagliata alle spalle, che si è fatto largo con la
sola forza delle sue canzoni e che dopo una sorta di rodaggio ai margini, si è
spinto sino ai tavoli di una delle etichette più coraggiose per la musica d'autore
di questi anni, la Anti. Questa è la vicenda di Sean Rowe e di Magic,
album concepito fra il 2008 e il 2009 in una soffitta sopra il vecchio ristorante
italiano del nonno, nella anonima cittadina di Troy, stato di New York, pubblicato
nel 2010 in totale indipendenza e oggi sbucato dal nulla per spargere il nome
e la voce di Rowe ad un pubblico più vasto. Un miracolo? Non è il caso,
anche perché ne abbiamo viste passare troppe per cedere a facili entusiasmi. Certo
è che l'alchimia di Magic non lascia indifferenti: non può non colpire quella
voce baritonale densa e misteriosa, che a qualcuno potrebbe facilmente ricordare
il Mark Lanegan più asciutto e folkie; non può allo stesso tempo passare inosservata
l'economia dei suoni che rende tuttavia tutto perfetto nelle misurate collaborazioni
(soprattutto Troy Pohl fra chitarre, piano, synth e organi e poche voci femminili
di contorno).
Chiamatelo folk se vi conviene, ma il flusso di emozioni
che finisce nelle canzoni di Sean Rowe possiede un afflato che è figlio tanto
del soul quanto del rock'n'roll più oscuro e tormentato. Lui stesso cita Van Morrison,
qualcuno ci ha aggiunto sull'adesivo in copertina Al Green e Gil Scott Heron,
ma sono trovate che fanno più male che bene. Qui pare solamente di avere a che
fare con un songwriter di prima classe, che misura parole, suoni e immagini, mettendo
a frutto la sua passione per la wilderness americana, per il paesaggio
e i suoi segreti (Rowe afferma a più riprese il suo legame con la storia dei nativi
americani) in frasi che sono alternativamente spine nel fianco o dolci confessioni,
così nude nei pensieri espressi, eppure sempre distinte da un velo di ambiguità.
L'alternanza si esplicita anche in un gioco fra luci e ombre, per cui
le melodie si possono spalancare alla delicata fragranza soul di Surprise
o al crescendo emozionale di Wet (senza eresie,
ma nel finale non sembra proprio di sentire il Bono dei tempi "sacri"
di Unforgettable Fire?); virare alla religiosità di American
e The Walker, palesemente ispirate, più o
meno consapevolmente poco importa, alla austerità di un Leonard Cohen; infine
cadere nelle ombre di Old Black Dodge, ballata
folk irrequieta e sghemba che ricorda Howe Gleb e il deserto dei Giant sand, o
della lascivia blues di Wrong Side of the Bed,
numero elettrico che bene si accompagna alla nervosa Jonathan.
Sono questi ultimi rari esempi di una inquietudine rock che cova sotto le ceneri
malinconiche di Sean Rowe e perché no, una scommessa aperta per il suo futuro,
una via di uscita che potrebbe regalare ulteriori suggestioni. Nel frattempo Magic,
la sua misteriosa delicatezza (Night e il
dialogo fra padre e figlio che racconta), la rarefazione con la quale distende
i suoi versi (The Long Haul) sono già una
bellissima realtà. (Fabio Cerbone)