Grant-Lee Phillips
Walking on The Green Corn
[
Magnetic Field
2012]

www.grantleephillips.com


File Under: skinny folk music

di Fabio Cerbone (20/11/2012)

Non so se Grant-Lee Phillips sia mai stato la voce di una generazione, tanto appartata è sempre parsa la sua figura, troppo fragile e connessa con i vagabondaggi di un folksinger per assumersi sulle spalle un tale, gravoso compito: certo è che, in quelle stagioni aspre fatte di alternative rock e deflagrazioni grunge, il suo canto in falsetto, le sue nenie acustiche e quelle ballate scaraventate contro un muro di suono elettrico della creatura Grant Lee Buffalo hanno rappresentato davvero un'apertura verso un mondo antico, una poetica che riusciva benissimo a sposare la tradizione americana più istintiva con la modernità rock. Il tempo ha fatto il suo corso e in una carriera solista sempre un po' troppo ondivaga Phillips ha perso il suo treno, preferendo restare un solitario, lanciando segnali con poca enfasi e una voglia un poco peregrina di sperimentare e mettersi in gioco.

Lo ha fatto scovando a volte il cuore più antico del suo songwriting (l'ottimo Virginia Creeper, forse il migliore nel palmares personale), altre cercando una sintesi fra passato e presente (il discreto Little Moon, ultimo segnale discografico in ordine di tempo), ma mai dando la sensazione di poter tornare all'espressività dei suoi esordi. Non vi riuscirà neppure con Walking in the Green Corn, statene certi, che da un certo punto di vista può essere sintetizzato come il suo album folk per eccellenza, un ritorno alle radici che si racchiude su stesso in dieci magre tracce per chitarra, voce e apparizioni sporadiche del violino (Sara Watkins, ex Nickel Creek, anche al controcanto in qualche episodio), tra una diafana Vanishing Song a una più brusca, rustica, omonima Walking in the Green Corn. Concepito lungo i mesi invernali, tra session casalinghe e scambi di vedute artistiche con la compagna scrittrice Denise Siegel, il disco ha piano piano abbandonato ogni possibilità di confronto con altri musicisti e produttori, allor quando Phillips si è accorto della disarmante resa delle versioni più scarne. "Faccio il lavoro migliore quando nessuno mi presta attenzione, incluso me stesso" afferma con una punta di ironia Grant Lee Phillips, giustificando una scelta sonora che approda al grado zero di Great Horned Howl e Buffalo hearts, melodie che riconosci all'istante come sue, per interpretazione e sedimento folk.

Peccato che risultino anche una concessione troppo benevola al proprio ego, senza rendersi conto di una farraginosa resa finale, di una azzardata richiesta di attenzione all'ascolto. Un po' involute, tediose nel rigirare accordi e silenzi (Silent Arrow, Bound to this World, Thunderbird), queste canzoni sono talmente personali (un riflessione più o meno svelata sulla propria storia familiare americana e i misteri dell'esistenza in rapporto alle proprie emozioni) da non accettare una mediazione, una rifinitura. Logico che quando un'intuizione si faccia largo ci si possa anche emozionare (The Straighten Outer potrebbe uscire dalla penna di Neil Young), in caso contrario sembra di assistere a idee non pienamente espresse, persi fra melodie un po' troppo arrendevoli.



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