Dopo
i discutibili azzardi stilistici del precedente Mobilize ('01), Grant-Lee
Phillips è tornato ad accudire con maggior sollecitudine il cuore
intimo delle sue canzoni. Virginia Creeper può essere considerato
il suo lavoro più riuscito dai tempi dei Grant Lee Buffalo di Mighty Joe
Moon ('94) non solo in virtù della rinnovata vena compositiva che ne permea
tutti gli episodi: il vero miracolo dell'album risiede nella grazia, nell'equilibrio
e nella praticità degli arrangiamenti che adornano ogni traccia, funzionali
ma non poveristici, semplici ma sempre indovinati, misurati ma mai banali.
Come se, dopo aver cercato di iniettare nuova linfa nella sua prima creatura
con modalità spesso roboanti, i cui risultati sono verificabili nella
confusione di Copperopolis ('96) e Jubilee ('98), e dopo aver cercato
di inventarsi una nuova verginità artistica nel disadorno esordio solista
Ladies' Love Oracle ('00), Grant-Lee avesse finalmente trovato la misura
perfetta della propria musica in un country-rock elettroacustico divorato
da una sottile melanconia e pregno di melodie indimenticabili. A un primo
ascolto, difatti, Virginia Creeper sembra un disco dei Grant Lee Buffalo
spogliato dell'elettricità, dacché il suo svolgimento - dal country-rock
più classico (Calamity Jane) a quello più visionario (Josephine
Of The Swamps), dalla ballata notturna (Mona Lisa) al carillon
jazzato (Waking Memory), dal freschissimo pop-rock di Lily-A-Passion
al bozzetto folkie di Dirty Secret - ne mantiene inalterati i rintocchi
epici, la seduzione narrativa e il gusto "californiano", privandoli però
dei graffi delle chitarre soliste e delle pelli tonanti di Joey Peters.
Basta tuttavia arrivare alla formidabile sequenza finale per rendersi
conto che quello che stiamo ascoltando non è l'ennesimo esperimento di
un musicista in crisi d'identità, bensì un progetto omogeneo e coerente,
il primo passo verso nuovi territori che di sicuro non faranno rimpiangere
i vecchi. L'interludio al pianoforte della straziante Susanna Little,
la solenne cavalcata tra rock e folk di I Wish I Knew (capolavoro),
i toccanti arpeggi semiacustici di una Fat End Of The Night con
tanto di quartetto d'archi e la bellissima versione di Hickory Wind,
memore in ugual misura dell'originale di Gram Parsons come della grandiosa
rilettura che ne diedero Bob Mould e Vic Chesnutt sul tributo Conmemorativo
('93), dicono di un songwriter e di un interprete al picco dell'ispirazione.
E' sorprendente, poi, ascoltare il multistrumentista Jon Brion (il
responsabile delle colonne sonore dei film di Paul Thomas Anderson) o
un virtuoso del basso come l'ex Soul Coughing Sebastian Steinberg
mentre si limitano ad assecondare le crepuscolari serenate rootsy del
titolare, ed è altrettanto curioso constatarne la felicità dell'interplay
con due musicisti di estrazione decisamente più tradizionale quali Bill
Bonk (fisarmonica) e l'eccelso Greg Leisz (dobro, pedal steel
e mandolino). Non si preoccupi chi stravedeva per il lato più selvatico
dei Grant Lee Buffalo. Qui non troverà nessun ripiegamento, nessun piagnisteo,
nessuna resa: solo undici brani meravigliosi
(Ginafranco Callieri)
www.grantleephillips.com
|