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fenomeno folk di
Marco Restelli (04/10/2012)
I
Mumford & Sons sono certamente considerati una delle band rivelazione del
panorama country folk degli ultimi due anni grazie al loro disco d'esordio Sigh
no More. Quest'ultimo ha rappresentato una curiosa novità e, cosa certamente
non trascurabile, ha avuto un sorprendente successo commerciale anche negli Stati
Uniti, tenendo conto che i membri della band vengono da Londra e, storicamente,
per gli inglesi non è mai stato facile presentarsi in maniera convincente oltre
oceano con dei suoni così tipicamente americani. Detto ciò, è logico che intorno
a Babel sia nata una sorta di febbrile attesa, così come è altrettanto
evidente come da questa recensione ci si attenda di capire se ne sia, o meno,
valsa la pena. Sarò subito molto franco e andrò dritto al punto: l'idea generale
che mi sono fatto è che i quattro giovanotti abbiano volutamente riproporre la
loro già ben collaudata e riconoscibile formula strumentale, quasi a voler "registrare"
definitivamente il proprio marchio, fatto di cori a più voci. Su questi sovrappongono
in maniera stratificata i loro strumenti: banjo (sempre in primo piano), chitarra
acustica, contrabbasso e pianoforte ai quali si aggiungono, ulteriormente, fiati
di tutti ogni tipo, per esaltare la parte più "rumorosa" dei pezzi.
Sì
perché, a livello di struttura, le loro canzoni risultano quasi tutte (maledettamente)
standard, prevedendo uno schema ben identificabile, vale a dire una ballad iniziale
(vedi la calma del gruppo messo in primo piano in copertina) il cui tempo accelera
progressivamente fino a trasformare il pezzo in una sorta di festa (ed ecco lo
sfondo). Altre volte lo stesso schema si inverte, magari con intermittenti stop
and go. Il paragone che mi viene in mente è con il toro di un rodeo che entra
calmo calmo nel gabbiotto adiacente al recinto, fino a quando il cowboy non ci
sale sopra e tenta di domarlo. A quel punto si è già scatenato come un pazzo e
non tornerà tranquillo fino a quando il campione di turno non sarà stramazzato
al suolo. Prendete ad esempio I Will Wait,
il primo singolo: è il manifesto del Mumford & Sons pensiero e, sinceramente,
per quanto non possa negare che ci sia dietro del talento a livello tecnico, proprio
non mi emoziona. Questo ovviamente non significa che Babel sia un
brutto disco perché sono presenti anche dei brani splendidi come Lover
of the Light ma, forse paradossalmente, risultano meglio riusciti proprio
i pezzi che si affrancano dall'omologante modello che ho tentato di descrivere.
Le (interamente!) low-tempo Ghost the We Knew
e la essenziale Reminder, ad esempio sono
due brani di ottimo livello che sembrano ispirarsi al folk più tradizionale e
profondo, che a mio avviso non si è mai limitato alla sola forma, puntando maggiormente
alla sostanza e, se vogliamo, dritto al cuore. Se il titolo Babel è stato scelto
con riferimento al caos che le diverse lingue causarono all'umanità nel momento
in cui volle - con superbia - raggiungere il cielo con una torre, estromettendo
di fatto Dio e prenderne il posto, direi che calza (involontariamente) con il
senso dell'album dei M. & S.: chi punta troppo in alto per ambizione rischia di
restare confuso e raggiunge suo malgrado l'obiettivo opposto a quello che si era
prefissato. Per il futuro, quindi, consiglierei alla band inglese di mettere da
parte un po' del suo insindacabile estro, per lasciar più spazio ai sentimenti,
magari proprio come facevano 40 anni fa Simon & Garfunkel, la cui The
Boxer viene qui egregiamente ripresa (nella sola edizione deluxe),
dimostrando che le potenzialità per andare in quella direzione ci sono eccome.
Basterà solo volerlo.