Il nuovo corso della giovane musica inglese ha deciso di aprirsi ai misteri
e alle gioie del folk: non si può far altro che constatare la ripresa
di una antica fiamma, magari declinata secondo una sensibilità tutta moderna
dove contaminare istinti acustici, strumentazione tradizionalista, melodia
magniloquente, stravaganze pop e un romaticismo fatto di ballate eteree
e struggenti. È l'effetto suscitato da questa opera prima dei Mumford
& Sons, "collettivo" di West London nato dalle ceneri di
una collaborazione artistica con la cantautrice Laura Marling e dopo due
anni di rodaggio approdato alle cure del produttore Markus Dravs
(Arcade Fire, Bjork) con un'idea molto precisa del proprio linguaggio.
Il folk rock dalle tinte pastorali che si scatena in Sigh No More
pare riassumere una "nuova onda" dentro cui, con personalità convergenti,
potremmo racchiudere per comodità Johnny Flynn, Noah and the Whale fino
ad arrivare a lambire, oltre l'Atlantico, le esperienze di Fleet Foxes
e Avett Brothers.
La sintesi attuata da Marcus Mumford, Country Winston, Ben Lovett e Ted
Dwane richiama naturalmente questo universo di estasi e armonia, dove
la West Coast di un tempo incontra il pop e le radici più antiche della
folk music, ma allo stesso tempo rivendica senz'altro un carattere già
molto indipendente. Si percepisce insomma come i Mumford & Sons non siano
una creatura nata per imitazione e che il loro ruolo potrebbe essere centrale
in questo rinascimento, se soltanto sapranno proseguire nel loro interessante
lavoro fra malinconia e giubilo. Le sensazioni che sprigionano gli arpeggi
di Sigh no More, gli intecci vocali
e le cavalcate in cui duellare fra chitarre acustiche, banjo, fiati e
un'epica crescente, sono tutte a favore di una band che sa scrivere canzoni
maledettamente rotonde, trascinanti, per almeno un tre quarti di questo
debutto (preceduto invero da una trilogia di ep). Avvincente il modo in
cui Marcus Mumford approccia la sua poetica terribilmente sentimentale,
semplice nell'esporre le sue emozioni, in The
Cave, svagandosi nella dolce nenia di Winter
Winds, facendosi buia e tempestosa in Roll
Away Your Stone, ruzzolando per ballate dai profumi agresti
quali White Blank Page e
Little Lion Man, quasi bluegrass in quella incalzante presenza
del banjo.
Piace dunque l'idea, seppure non inedita ormai, di giovani musicisti che
ritrovino strade abbandonate, tornando a battere i sentieri di una naturalità
folk che non significa affatto estraniarsi dalla attualità. È nella parte
finale infatti che Sigh No More lascia una formula collaudata e assai
accattivante (in Timshel toccano il
vertice di quella preghiera folk che potremmmo definire "alla Fleet Foxes")
per avventurarsi in tensioni, in parte anche elettriche, che tengono aperta
una scommessa sul futuro dei Mumford & sons. Non è detto che siano gli
episodi più riusciti del disco - l'ombrosa Thistle
& Weeds o la pianistica, enfatica Dust
Bowl Dance - ma chiariscono forse le virtù di un gruppo potenzialmente
destinato a sbocciare con ancora maggiore forza. (Fabio Cerbone)