Tesoro musicale della scena
di New Orleans, autore che ha saputo tenere insieme la multiforme tradizione
cittadina con le nuove pulsioni del rock, del blues elettrico e dell’Americana
(quando ancora la definzione del genere non era all’orizzonte), il “ragazzo
svedese” di Uddevalla, catapultato nella Big Easy a metà degli
anni Ottanta e lì definitivamente accolto dalla comunità artistica cittadina,
festeggia quasi quattro decenni di attività discografica e alla soglia
dei sessant’anni estrae dal cilindro uno dei suoi album più spiritati.
Forse in consapevole constrato con l’intimità acustica e le confessioni
folk dell’altrettanto ammirevole Orpheus
and the Mermaids, Picasso's Villa è un condensato (“soltanto”
otto brani, quattro per facciata nell’edizione in vinile che affianca
l’uscita digitale) di ricordi, sensazioni, omaggi che attraversano la
sua storia personale di musicista e di uomo, e allo stesso tempo commentano
lo stato della nazione, un’America sballottata e confusa, in preda a divisioni
nette, dove il potere rinsaldante della comunità e dell’amicizia sono
contrapposti da Osborne a questa deriva, appigli per tenere insieme gli
individui e la loro umanità. La necessità del messaggio si riflette in
una musica gioiosa e tonante, che alterna da una parte ballate dai colori
brillanti, che sprizzano gli umori della Louisiana e il piglio narrativo
di un folksinger, come testimonia la stessa Picasso’s Villa, accostamento
da cui nasce una riflessione sulla condizione d’artista al giorno d’oggi,
e dall’altra una manciata di brani dall’anima heartland rock, liberatori
e dal timbro stradaiolo, con Bob Dylan e Neil Young come stelle polari.
Quest’ultimo è una sorta di ombra protettiva che trova conferma nella
registrazione curata da Niko Bolas e Chad Cromwell (anche alla batteria),
ben noti “uomini di Young” in passato, ai quali si aggiungono le presenze
di Waddy Wachtel (Warren Zevon) alle chitarre e Bob Glaub (Bob Dylan,
Jackson Browne) al basso, mentre gli svolazzi del’organo B3 di Ivan Neville
e altri ospiti in ruoli chiave al fiddle, armonica e cori garantiscono
quelle sfumature da rilassatezza sudista che ci aspetteremmo legittimamente
in un disco di Osborne. Lui canta e racconta con un trasporto e una chiarezza
d’intenti che non mostrava da tempo, aprendo il cuore alla sua vicenda
personale da figlio adottivo di New Orleans con il rotolare elettro-acustico
di Dark Decatour Love e nello splendido
finale di La Grande Zombie, agrodolce
e percussiva soul jam dedicata alla figura del mentore Dr. John, prima
di dare fiato a un’inedita versione rock della sua scrittura musicale
con la “springsteeniana” e passionale Reckless
Heart, idealmente in combutta con il passo alla Crazy Horse
di una Real Good Dirt che potrebbe sbucare da una session inedita
di Ragged Glory, quell’elettricità veemente tipica del loner canadese
Neil Young, qui presenza costante e sotto traccia.
Ma l’intero Picasso's Villa e lo stesso Anders Osborne hanno troppa
personalità e un peso artistico specifico che non possono essere ridotti
a una semplice “imitazione” di facciata: c’è semmai un sentire comune
e un’autentica voglia di farsi trascinare dai collaboratori in studio
e dalla loro grande sensibilità strumentale, dischiudendosi alla solarità
rock jammata di episodi quali To Live e Returning to My Bones,
un riff chitarristico che ammicca alla The Joker di Steve Miller,
prima che le soliste siano lasciate a briglia sciolta. Al centro di tutta
questa “operazione” si staglia il singolo Bewildered,
traccia che rappresenta una sorta di lucida cronaca americana in formato
di ballata rock, commento ai quarant’anni da cittadino negli States di
Anders Osborne, il quale osserva gli stravolgimenti culturali del paese
attraverso fatti, figure iconiche e atteggiamenti delle singole persone,
per concludere laconicamente… Nothing changes, yet nothing stays the
same.