Forse abbiamo fatto bene
a non perdere di vista Anders Osborne in questi anni, un autore
che durante i 90 si era fatto valere con alcuni dischi in puro stile New
Orleans Sound come Which Way to Here o Living Room, che
avevano avuto anche un buon ritorno di critica. Successivamente Anders
aveva spesso provato nuove strade, a volte più cantautoriali, entrando
anche in area Van Morrison/Astral Weeks (Coming Down del 2007),
o altre volte tornando al primo amore, come Buddha
and the Blues del 2019 o ancora la collaborazione con i North
Mississippi Allstars del 2015 (l’album era Freedom & Dreams). La
sua discografia si è fatta però via via sempre più nascosta dai riflettori,
quasi che il personaggio abbia preferito rimanere nelle retrovie e comunicare
solo con una ristretta cerchia di appassionati di un certo mondo musicale,
nonostante, anche nei suoi lavori meno ispirati, abbia sempre dimostrato
quella grande cura nella produzione che non lo ha mai fatto slittare nel
facile home-record fatto per sopravvivenza.
Per questo salutiamo con piacere questo Orpheus and the Mermaids,
perché alla fine il risultato di tanto peregrinare da parte di questo
svedese trapiantato in terra statunitense è l’essere arrivato a poter
maneggiare una materia così “vecchia” come il folk con la sicurezza, e
direi anche la “statura”, del nome di primo livello. In questi nove brani
non c’è una nota o un giro di armonica che non richiami Bob Dylan (Forced
To), ancora una volta Van Morrison (Pass
on By) o Neil Young nella sua veste acustica (Jacksonville
to Wichita), eppure sebbene le soluzioni siano quelle che già vi potete
immaginare, a 55 anni Osborne dimostra piena padronanza del proprio songwriting,
con testi anche molto interessanti. Il disco ha infatti tutta l’aria della
confessione intima, a partire dalla produzione, con un suono acustico
e cantautoriale molto rigoroso, al quale Anders concede poche soluzioni
alternative in sede di arrangiamento (molto azzeccato il coro muto che
commenta la bella Dreamin’
ad esempio). Osborne ha qualche storia personale da raccontare (Light
up the Sun e Rainbows), ma soprattutto qualche sassolino nelle
scarpe da togliersi, come quando ricorda l’amico Neal Casal prendendosela
più o meno direttamente con quanti lo avevano lasciato solo proprio in
quel momento di debolezza che lo ha portato al suicidio (Last
Day in the Keys).
Non so quanto un disco così visceralmente legato al mondo della musica
tradizionale americana possa aiutarlo ad evitare di essere ancora una
volta ignorato da praticamente quasi tutte le più note testate musicali
che non siano di marca strettamente roots/americana, ma voglio credere
che la bontà di questi nove brani possa davvero farci ritrovare il suo
nome in qualche classifica di fine anno in più. Perché questo vecchio
folk non è solo puro manierismo, è la canzone d’autore americana che si
ravviva ancora una volta, pur partendo sempre da lì, da una chitarra,
un’armonica, e qualcosa che valga ancora la pena essere raccontato.