Non sarebbe
facile spiegare al pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché
noi di Rootshighway abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica
di JJ Grey & Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo
anche prima spiegare di chi diavolo stiamo parlando, visto che, sebbene
il combo di Jacksonville, Florida sia nato prima del 2000, ad oggi la
sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena post-Jam-bands,
categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater
(che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come
mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto
ad attenzione mediatica, perché riteniamo abbia generalmente esaurito
la propria carica creativa (sebbene in USA resti un fenomeno ancora più
che vivo dal punto di vista dei riscontri di pubblico presente ai concerti),
loro invece non hanno mai smesso di suscitare la nostra più piena ammirazione,
se non proprio entusiasmo.
E questo nonostante si portino nel DNA il difetto di fondo di molte jam-bands
nate nei 90, e cioè una scarsa originalità nel fare un gran minestrone
di generi e influenze. Non c’è infatti nulla di straordinariamente nuovo
nel mix di southern–rock, soul e funky-music che hanno portato in alto
nelle nostre classifiche dischi come Country
Ghetto (2007) o This River
(2013), sempre pubblicati per la storica etichetta di Chicago, Alligator
records, che li ha riaccolti in questa occasione; c’è però un suono splendido,
positivamente condizionato dall’uso dei fiati, una voce adatta al genere
(il leader JJ Grey), e un pugno di canzoni che, seppur non scevre di citazionismi
e pesanti debiti col passato, suonano fresche e convincenti.
Dopo nove anni di pausa da Ol
Glory (2015), Olustee (nome di un piccolo centro abitato
dove nel 1864 venne combattuta una delle più sanguinarie e decisive battaglie
della Guerra Civile Americana) paradossalmente sembra voler spiazzare
con l’iniziale The Sea, maestosa soul-ballad
immersa negli archi che paiono un ingrediente nuovo al loro menu, ma è
solo un diversivo che significativamente verrà ripetuto col simile finale
di Deeper Than Belief. Tra i due brani è festa di ritmi, suoni
del sud, chitarre ancor più in evidenza del solito (da mettere in repeat
la title-track per puro godimento d’udito), brani ancora più semplici
e diretti persino negli ermetici titoli (Rooster, Wonderland,
ecc..). Il cuore di Olustee è un disco che riparte esattamente
da dove si erano fermati, con nuovi brani da mettere in una ideale compilation
per un viaggio da “On the Road” (Seminole Wind,
Top Of The World), e accorate soul-ballads col santino di Otis Redding
nella tasca (On A Breeze, Starry Night, Waiting),
ma, soprattutto, con l’ennesimo rammarico di avere poche speranze di riuscire
a portare in Italia un gruppo così numeroso, che non avrebbe senso ascoltare
in forma ridotta, e oltretutto con scarse possibilità di conquistare tanti
cuori tra i nostri conterranei che questa musica, siamo convinti a torto,
la danno ormai per scontata. E’ proprio il caso di dirlo: bentornati.