È un artista a suo modo enigmatico
Ray LaMontagne, non tanto per presunti misteri insiti nella sua
musica, semmai limpida e ispirata apertamente da alcuni dei passaggi fondamentali
del più classico cantautorato folk rock, quanto per la figura dell’uomo,
una persona riservata che anche nelle scelte personali della vita ha preferito
l'isolamento nell’ambiente famigliare, lontano dai riflettori. Tutto ciò
si riverbera sulle canzoni, sull’intimità stessa delle liriche, e naturalmente
trova piena espressione nella voce, quella voce, sensuale e increspata
da vibrazioni soul, sospesa negli amori di sempre, dal Van Morrison “astrale”
all’americana ante litteram di The Band, nel mezzo il country rock ombroso
di Neil Young e la California di Stephen Stills, colui che si dice abbia
spronato con una sua canzone (Treetop Flyers) la carriera dello
stesso Ray.
Sono spiriti che inseguono costantemente la scrittura musicale di questo
Long Way Home, ai quali andrebbe aggiunto oggi il nome
di Townes Van Zandt, per stessa ammissione di LaMontagne una sorta di
miccia che ha acceso l’intero progetto, ispirato dai versi di quella
To Live Is to Fly che sono rimasti in testa per più di trent’anni,
dalla prima volta in cui Ray la ascoltò dal vivo, direttamente dalla voce
di Van Zandt. Long Way Home si concentra sul lungo viaggio dell’esistenza
e sull’infinita traversata del musicista, forse influenzato dal passaggio
della mezza età. Sta di fatto che il cinquantenne Ray laMontagne di Long
Way Home assomiglia molto all’esordiente trentenne di Trouble
(2004), perché dopo il ritorno a casa del precedente Monovision,
anche questo disco sembra ritrovare quelle sensazioni e quei suoni, avvolti
spesso in una bambagia country folk settantesca, dagli effluvi di I
Wouldn’t Change a Thing al tepore acustico di Yearning
fino al raggiante “raccolto” (Harvest, sì, proprio quello il riferimento)
di una rivelatrice And They Called Her California,
dagli zampilli celtic soul di una My Lady Fair che potrebbe sbucare
direttamnete dai solchi di Moondance al cullare risolutivo della
title track, anticipata dal breve bozzetto strumentale di So, Damned
Blue, un corpo unico che sintetizza al meglio il fascino dell’interprete
LaMontagne.
Così, dopo avere tentato, non sempre riuscendoci, inedite espressioni
in album quali Supernova e Ouroboros, accentuando ora le
trame psichedeliche, ora le lusinghe pop, anche servendosi della visione
di diversi produttori, da Dan Auerbach (Black Keys) a Jim James (MY Morning
Jacket), adesso LaMontagne si riappacifica definitivamente con la sua
arte, e fregandosene delle accuse (che certamente torneranno a parlare
di nostalgia e rievocazioni sparse) lascia fluire il suo canto e quelle
chitarre che hanno dentro il peregrinare contemplativo e bucolico della
migliore West Coast (il gioiello The Way Things
Are), nonché la leggerezza cristallina di quel soul dai riflessi
60s che qui ha il compito di esprimersi al meglio nella maliziosa Step
Into Your Power, singolo scelto per esaltare la collaborazione con
le voci delle ospiti Secret Sisters ( Laura Rogers and Lydia Slagle),
restituendo il favore dopo la presenza di Ray nell’ultimo disco di queste
ultime.
Inciso nell’arco di poche settimane nel suo studio casalingo di campagna,
coadiuvato dal produttore Seth Kauffman (Angel Olsen, Lana Del Ray), Long
Way Home è il ritorno del figliol prodigo del folk rock di queste
stagioni.