È un ritorno a casa, dopo un lungo peregrinare,
quello di Ray LaMontagne. Il tenero involucro agreste di Monovision
evoca immediatamente la purezza acustica degli esordi, quando Trouble
annunciò al mondo l’arrivo di una nuova voce per la generazione folk americana.
Chi aveva apprezzato le increspature country soul di quegli inizi, l’eco
del Van Morrison più astrale e i paesaggi del Laurel Canyon californiano
che si aprivano fra le dolci melodie disegnate dalle ballate di LaMontagne,
ritroverà un amico in questo album dalla concezione autarchica, scritto,
suonato e prodotto in totale solitudine. La visione in mono di Ray si
ricollega a tale scelta, quasi spirituale, e non solo di attitudine sonora:
c’è la sua bella casa nella Franklin County, in Massachussetts, c’è il
suo studio personale (ribattezzato Big Room), c’è infine un pugno di canzoni
che fanno della semplicità d’animo, dei richiami alla dimensione della
natura e di una sorta di ritiro dorato, il motivo del fascino principale
dell’intero Monovision.
Già nel precedente Part
of the Light LaMontagne era tornato al timone, dopo avere sperimentato,
qualche volta anche cedendo un briciolo in carattere, insieme ai produttori
Jim James (My Morning Jacket) e Dan Auerbach (Black Keys), musicisti che
lo avevano spronato ad esprimere le sue ambizioni per la psichedelia,
per un tono più “cosmico” e finanche pop della sua scrittura. Con titoli
quali Summer Clouds, Misty Morning Rain, Highway to the
Sun si intuisce che il viaggio di Monovision sarà tanto interiore
quanto rappacificato con gli elementi del creato, e qui la bravura di
Ray è nel rendere ciò che all'apparenza potrebbe persino sembrare banale,
troppo elementare nel tracciare quegli accordi acustici, in qualcosa che
invece sa esprimersi con un’anima. Lavorare con la semplicità: ci riescono
in pochi, e occorre anche la convinzione di una voce, quella voce, che
LaMontagne imprime con l’intensità sussurrata del singolo Roll
Me Mama, Roll Me, venature country blues nel picking della
chitarra e un basso che palpita sensuale.
La magia del brano è fatta e Monovision dischiude vedute da “buon
ritiro” bucolico, in testa e negli accordi le cadenze che furono di album
come White Light di Gene Clark o Harvest di Neil Young,
insomma quella stagione americana di sogni implosi nella propria delicata
intimità, fra le carezze romantiche di I Was Born to Love You (forse
la più cedevole nelle parole, ma salvata da una melodia classica al primo
istante) e Summer Clouds, tra i soffi di armonica e polvere da
crepuscolo di We’ll Make It Through e Rocky
Mountain Healin’, che stanno là sospese nella California immaginaria
degli America, mentre una chitarra vagamente spanish ricama sull’interpretazione
magistrale di Misty Morning Rain, qui davvero un cerchio che si
chiude e prende la direzione che fu dell’esordio Trouble. Monovision adotta
così, per forza di cose, una coloritura che descrive tutte (o quasi) le
sue dieci canzoni, senza grandi cambi di registro: accade giusto nella
vampa tra roots rock e gospel di una Strong Enough
formato Creedence/ John Fogerty, laddove il canto si staglia invece sul
tramonto dolcissimo di Weeping Willow, voce raddoppiata ad evocare
gli Everly Brothers, e nei languori country rock espansi di Highway
to the Sun.
Dopo tanto navigare per acque più agitate, Ray LoMontagne pare offrire
a se stesso e a noi ascoltatori un disco per riconciliarsi con le piccole
cose che contano al mondo: di questi tempi potrebbe tornare utile.