La ripresa
del controllo della propria vita, un percorso di rinascita e la rivendicazione
di ciò che davvero conta intorno a sé: Jaime Wyatt “sfrutta” ogni
singolo momento della sua biografia personale per trasformarlo in canzoni,
una colonna sonora del dolore scacciato e della gioia riconquistata che
batte il sentiero di un’american music dove fremiti country soul
e spavalderia rock si incontrano a metà strada, dando forma al manifesto
di Feel Good.
Per approdare alla maturità artistica dell’album Jaime ha chiamato a raccolta
musicisti dalla California (dove ha vissuto negli ultimi anni) a Nashville
(dove si è trasferita di recente), lavorando con due sezioni ritmiche,
il vero cuore pulsante dell’intero Feel Good, ma soprattutto affiancata
dalla sensibilità sonora di Adrian Quesasa. Quest’ultimo, produttore
e mente dietro i Black Pumas, ha riunito provini e improvvisazioni nate
negli ultimi due anni direttamente negli studi Electric Deluxe Recorders
di Austin, letteralmente scolpendo il suono dalle colorazioni vintage
e dall’eccitazione southern soul che qui vibra sottopelle in ogni singolo
passaggio, dalla dichiarazione di intenti in World Worth Keeping
alla chiusura nei palpiti country di Moonlighter.
Autrice balzata all’attenzione del mondo Americana con l’album Felony
Blues del 2017, cronaca sincera della sua discesa all’inferno (tossicodipendenza
e alcolismo che la portarono fino al carcere), Jaime Wyatt ha cominciato
una minuziosa ricostruzione della sua esistenza, gettando sul piatto i
suoi fallimenti per trovare la chiave dell’ispirazione: è giunto prima
l’esordio in casa New West con l’ottimo Neon
Cross, allora sostenuta dalla collaborazione con Shooter Jennings,
quindi il qui presente Feel Good, che è tutta un’altra storia,
davvero. Ha l’impudenza e la gioia di un’autentica "southern soul
revue" questa raccolta di canzoni, che danzano sui sussulti del basso
a introdurre la stessa Feel Good e
si spalancano alla raggiante elegia southern rock di Back
to the Country.
Tra la Memphis della Stax, le sortite a Muscle Shoals e l’intera Nashville
dei rinnegati outlaw degli anni Settanta, Jaime Wyatt e la banda (almeno
un plauso va alla sezione ritmica formata da Scott Davis, Will Rockwell
e Kyle Egart, senza tralasciare le tastiere portanti di Joshy Soul, una
vera bendizione) resuscitano una musica che sa di fierezza sudista e Americana
dal batticuore soul, come testimoniano la cura di Love is a Place,
lo struggersi di una Hold Me One Last Time
che possiede il carattere di un vecchio classico (innodiche voci femminili
comprese nel prezzo) per approdare alle strizzate d’occhio di una Jukebox
Holiday che è new soul alla maniera degli stessi Black Pumas.
Jaime canta (benissimo) e racconta se stessa credendoci veramente, e questo
fa la differenza, anche quando sceglie il buio e non la luce (che resta
tuttavia il tratto dominante in Feel Good): da lì spuntano la drammaticità
di Where The Damned Only Go, tra le
interpretazioni più convincenti della Wyatt, e la progressiva tensione
di Fugitive, nitido rock’n’soul attraversato dalle ombre della
violenza delle armi in America, fino alla curiosa scelta, ma perfettamente
coerente per la parte lirica, di reinterpretare Althea dei Grateful
Dead (testo a firma Hunter/Garcia), avvolta dalla band in una bambagia
funky psichedelica.
Un trionfo su tutta la linea per Jaime, e uno dei migliori esempi ascoltati
di recente di come la musica possa davvero curare le ferite dell’anima:
e qui di “soul” ne scorre a fiumi, potete scommetterci.