Jaime Wyatt
Neon Cross

[New West 2020]

jaimewyatt.com

File Under: fluorescenza country-rock

di Gianfranco Callieri (04/06/2020)

In un curioso e a suo modo appassionante apologo tra scienza e narrazione, intitolato Il caso del pittore che non vedeva i colori (lo trovate in Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali, Adelphi, 1998), il neurologo inglese Oliver Sacks rievocava l’acromatopsia — il termine medico per indicare la mancata percezione dei colori — di un individuo segnato da tale disturbo non dalla nascita, ma da un’intossicazione da monossido di carbonio: conservando la memoria del colore e tuttavia non potendo più distinguerlo, il paziente viveva in uno stadio di rimpianto perenne. Se osserviamo la copertina di Neon Cross, secondo album della californiana Jaime Wyatt dopo l’antipasto breve (non un EP, comunque) di Felony Blues (2017) e dopo la fuoriuscita dalla dipendenza da eroina, vediamo l’artista in completo bianco, stivali e cappello, seduta su di una vecchia poltrona, davanti all’ingresso di quella che (a giudicare dal sistema illuminotecnico dei soffitti) dovrebbe essere una sala biliardi lungo uno dei due marciapiedi di cui si compone la cosiddetta «Walk of fame» hollywoodiana, poco fuori Los Angeles.

Il colore, in questo caso, è costituito dalle luci al neon riprodotte anche nei caratteri di titolo e intestazione, e se l’ammiccamento allo stile countrypolitan notturno e smaltato di un film come Urban Cowboy (1980) di James Bridges (all’epoca più importante di qualsiasi artefatto discografico nel traghettamento del country & western al mainstream) sembra evidente, altrettanto trasparente pare essere il tentativo di rimandare a un iperrealismo di genere appunto reso esplicito dalle luci fluorescenti e dai loro contrasti netti, poco inclini alle sfumature e ai passaggi graduali. Perché se anche la «croce al neon» di Wyatt non è solo quella di una semplice retromaniaca intenta a ripescare i cromatismi accesi degli ’80, l’atmosfera di quel decennio, quando la riscoperta di un certo tipo di radici tirate a lucido costituì una specie di antidoto alle paranoie e all’oscurità delle stagioni precedenti, rimane in ogni caso predominante lungo tutte e undici le canzoni del disco, prodotte (benissimo) da Shooter Jennings (anche seconda voce nella ballata honky-tonk Hurt So Bad, mentre nel gospel rurale di Just A Woman c’è, in mezzo a qualche tastiera di troppo, sua madre Jessi Colter) assecondando il r&b con incartamento country dell’autrice e rendendolo, al limite, ancor più incisivo e vigoroso sotto il profilo strumentale, peraltro impreziosito da una delle ultime prestazioni della sei corde del compianto Neal Casal.

Neon Cross scorre pertanto lineare, senza intoppi, attraverso variazioni di registro in grado di tenere assieme i sei minuti di cadenze pianistiche dell’iniziale Sweet Mess e il divagare country-blues dell’ultima Demon Tied To A Chair In My Brain, il mid-tempo dai tratti stonesiani di L I V I N e il roots-rock spumeggiante di Rattlesnake Girl o Goodbye Queen. Ogni tanto si resta ammirati dall’istrionismo della sua artefice e da una vocazione soul non così lontana, in fondo, da quella di un Chris Stapleton; in altre occasioni il manierismo, ancorché di fattura indiscutibilmente pregevole, finisce per rendere l’esecuzione un po’ fredda e calcolata. Le luci fluorescenti, del resto, possiedono la facoltà di uniformare anche le scenografie più variegate, e l’assenza di altri colori rispetto a quelli inanimati del pur ammirevole esercizio di stile non evita il rischio, come scopriva il protagonista del racconto di Sacks, di trovarsi a ragionare solo su di un’indistinta scala di grigio. Insomma, per il momento la Neon Cross di Jaime Wyatt è abbastanza luminosa da divertire, ma per l’immediato futuro non sarà fuori luogo dotarsi di un pizzico di personalità in più.


    


<Credits>