In un curioso e a suo modo appassionante apologo
tra scienza e narrazione, intitolato Il caso del pittore che non vedeva
i colori (lo trovate in Un antropologo su Marte. Sette racconti
paradossali, Adelphi, 1998), il neurologo inglese Oliver Sacks rievocava
l’acromatopsia — il termine medico per indicare la mancata percezione
dei colori — di un individuo segnato da tale disturbo non dalla nascita,
ma da un’intossicazione da monossido di carbonio: conservando la memoria
del colore e tuttavia non potendo più distinguerlo, il paziente viveva
in uno stadio di rimpianto perenne. Se osserviamo la copertina di Neon
Cross, secondo album della californiana Jaime Wyatt dopo
l’antipasto breve (non un EP, comunque) di Felony Blues (2017)
e dopo la fuoriuscita dalla dipendenza da eroina, vediamo l’artista in
completo bianco, stivali e cappello, seduta su di una vecchia poltrona,
davanti all’ingresso di quella che (a giudicare dal sistema illuminotecnico
dei soffitti) dovrebbe essere una sala biliardi lungo uno dei due marciapiedi
di cui si compone la cosiddetta «Walk of fame» hollywoodiana, poco fuori
Los Angeles.
Il colore, in questo caso, è costituito dalle luci al neon riprodotte
anche nei caratteri di titolo e intestazione, e se l’ammiccamento allo
stile countrypolitan notturno e smaltato di un film come Urban Cowboy
(1980) di James Bridges (all’epoca più importante di qualsiasi artefatto
discografico nel traghettamento del country & western al mainstream) sembra
evidente, altrettanto trasparente pare essere il tentativo di rimandare
a un iperrealismo di genere appunto reso esplicito dalle luci fluorescenti
e dai loro contrasti netti, poco inclini alle sfumature e ai passaggi
graduali. Perché se anche la «croce al neon» di Wyatt non è solo quella
di una semplice retromaniaca intenta a ripescare i cromatismi accesi degli
’80, l’atmosfera di quel decennio, quando la riscoperta di un certo tipo
di radici tirate a lucido costituì una specie di antidoto alle paranoie
e all’oscurità delle stagioni precedenti, rimane in ogni caso predominante
lungo tutte e undici le canzoni del disco, prodotte (benissimo) da Shooter
Jennings (anche seconda voce nella ballata honky-tonk Hurt
So Bad, mentre nel gospel rurale di Just A Woman c’è,
in mezzo a qualche tastiera di troppo, sua madre Jessi Colter) assecondando
il r&b con incartamento country dell’autrice e rendendolo, al limite,
ancor più incisivo e vigoroso sotto il profilo strumentale, peraltro impreziosito
da una delle ultime prestazioni della sei corde del compianto Neal Casal.
Neon Cross scorre pertanto lineare, senza intoppi, attraverso variazioni
di registro in grado di tenere assieme i sei minuti di cadenze pianistiche
dell’iniziale Sweet Mess e il divagare
country-blues dell’ultima Demon Tied To A Chair In My Brain, il
mid-tempo dai tratti stonesiani di L I V I N e il roots-rock spumeggiante
di Rattlesnake Girl o Goodbye Queen.
Ogni tanto si resta ammirati dall’istrionismo della sua artefice e da
una vocazione soul non così lontana, in fondo, da quella di un Chris Stapleton;
in altre occasioni il manierismo, ancorché di fattura indiscutibilmente
pregevole, finisce per rendere l’esecuzione un po’ fredda e calcolata.
Le luci fluorescenti, del resto, possiedono la facoltà di uniformare anche
le scenografie più variegate, e l’assenza di altri colori rispetto a quelli
inanimati del pur ammirevole esercizio di stile non evita il rischio,
come scopriva il protagonista del racconto di Sacks, di trovarsi a ragionare
solo su di un’indistinta scala di grigio. Insomma, per il momento la Neon
Cross di Jaime Wyatt è abbastanza luminosa da divertire, ma per l’immediato
futuro non sarà fuori luogo dotarsi di un pizzico di personalità in più.