Magari non sto dicendo una
bella cosa per uno che ama raccontare dischi nuovi, ma non mi capita ormai
spesso di attendere l’uscita di un album con la sana ansia dell’amante
di musica in cerca di qualcuno ancora in grado di sorprenderlo, ma da
Aspirin Sun, quarto album di Emma Tricca, non sapevo bene
cosa aspettarmi. Il precedente St.
Peter si era rivelato un piccolo miracolo, in cui una artista
di casa nostra aveva capito perfettamente come assorbire due culture lontane
come quella del folk inglese tradizionale alla John Renbourn, e del cantautorato
indie americano, facendole non solo proprie, ma anche apportando un contributo
personale non indifferente.
In questi quasi cinque anni Emma, ormai inglese a tutti gli effetti, ha
continuato a viaggiare, a studiare, a frequentare i musicisti giusti,
e l’approdo a un’etichetta importante (e per noi di casa) come la Bella
Union suona già come una prima garanzia di qualità. Ma questo Aspirin
Sun vince perché la conferma autrice per nulla scontata, vocalist
più che comunicativa, e musicista perfettamente a suo agio in mezzo a
nomi importanti come Pete Galub, l’ex Sonic Youth alla batteria o il Dream
Syndicate Jason Victor, che suona chitarre e produce, vale a dire lo stesso
team che già aveva lavorato al disco precedente.
Sebbene l’intelaiatura dei brani resti folk, la propensione alla variazione
sul tema e ai tempi allungati da jam anche lisergiche, la porta in questa
occasione più sui terreni del John Martyn sperimentatore, o, per citare
nomi più moderni, sicuramente potremmo collocarla a metà strada tra la
recente Meg Baird e certe variazioni
sul tema folk di Ryley Walker. Senza dubbio la sua proposta è ulteriormente
cresciuta in eclettismo, per cui se Christadora House ha salde
fondamenta nei classici, la lenta e ipnotica Leaves entra quasi
nel mondo dello slowcore. Ma brani come Autmn’s
Fiery Tongue o la straordinaria Ruben’s
House rappresentano strutture complesse che pochi saprebbero
maneggiare con così grande esperienza. E anche i brani più immediati e
semplici come King Blixa, o le Devotion e Space And Time
poste ai margini della tracklist, rendono il disco perfettamente equilibrato
tra esigenze cantautorali e improvvisazioni degne dei migliori Pentangle.
Peccato che lo stile vocale e il genere restino materia per pochi palati,
perché tanta qualità meriterebbe davvero platee più ampie, e se anche
fosse questo il punto di arrivo di una creatività in continuo crescendo,
direi che ha già raggiunto un ragguardevole, e soprattutto memorabile,
livello.