«Forse le
cose amate», scriveva Anna Maria Ortese, «sono soltanto invisibili, non
perse». Forse, continuava la scrittrice romana, tutto il passato - il
passato di tutti noi - continua da qualche parte a esistere, e prima o
poi, attraverso le giuste mosse, torneremo a possederlo, «come un film,
tornerà a svolgersi». Gli album di Buddy & Julie Miller, sposati
da più di quarant’anni ma solo dal 2001 autori di quattro lavori (questo
compreso) accreditati a entrambi anziché all’uno o all’altra, tradiscono
sempre un desiderio, un anelito o una nostalgia, come se i loro artefici
fossero alla costante ricerca di un eden perduto, dell’incanto
delle prime volte, dell’innocenza con cui ci si accosta, ancora inesperti,
a un linguaggio in grado di farci capire quale sia la nostra stessa voce.
Perché, certo, i due musicisti provengono dall’area del tradizionalismo
roots, e lì continuano a muoversi, ma a fare la differenza tra il loro
intreccio di folk e rock, insaporito dal country come quello di moltissimi
altri, a volte annerito invece da un filo di soul anch’esso diventato
merce comune nel corso degli anni, è proprio l’atmosfera fatata e sospesa
di una continua (ri)scoperta, sempre guarnita da un lirismo intenso, spontaneo,
toccante, tale da far sembrare «nuovo» ciò che nuovo, ovviamente, non
è. Rimaneggiano materiali antichi, i coniugi Miller, eppure quel che esce
dai loro stabilimenti, grazie alla sensibilità espressiva del dettato,
ha il pregio della freschezza. Ciò non li mette al riparo dal pubblicare
anche opere perfettamente inutili (per esempio lo sfiatato Breakdown
On 20th Ave. South di quattro anni fa), ma per fortuna In The
Throes non appartiene alla categoria. Anzi, bisogna partire dal
suo titolo, che potremmo tradurre alla lettera con «durante l’agonia»,
per capire quanto esso sia (ancora) frutto della convivenza di Julie Miller
- compositrice unica di tutti e dodici i brani in scaletta - con la fibromialgia
e la conseguente ciclotimia di cui soffre ormai da decenni: una malattia
però raccontata, evocata e trasfigurata con gioia e stupore quasi infantili,
appunto col candore di chi attraversa il mondo da eterno novizio.
Nella postura di Buddy & Julie Miller si può trovare qualcosa di un’altra
coppia celebre (almeno per noi appassionati), ossia quella composta da
Mark Olson e Victoria Williams, che pur non esistendo più ci ha lasciato
in dote gli album degli Original Harmony Ridge Creekdippers; se pensate
a quelli, mischiandoli con la malinconica, rarefatta eleganza della Emmylou
Harris alla metà dei ’90 prodotta da Daniel Lanois (o dallo stesso Miller
nei panni del chitarrista e del supervisore: qualcuno ricorda il magnifico
Spyboy [1998], album dal vivo dov’era ospite anche Julie Miller?),
vi sarete fatti un’idea dell’acquario sonoro in cui ondeggiano le intuizioni
dolci e sottili di In The Throes. Nel quale a un certo punto, inevitabilmente,
compare la stessa Harris, comprimaria d’onore nell’elegia country-gospel
della commossa The Last Bridge You Will Cross,
testimonianza di un "sentire" spirituale immortalato anche nella
preghiera Midwesterner della dolente I’ll Never
Live It Down o nel composto e fanciullesco coro dell’ultima
Oh Shout, non uno scherzo innocuo bensì un’icastica dichiarazione
d’amore verso le creature a cui affideremo il nostro domani.
In mezzo ci sono lo stupendo folk elettroacustico di
Tattooed Tear, il blues sferragliante di I Been Around,
l’epica tra country e rock di We’re Leavin’, il rock in formato
heartland della sanguinaria The Painkillers Ain’t Workin’ e la
trasognata atmosfera da ultimo valzer (splendido il basso di Byron House)
di I Love You. C’è, soprattutto, un piccolo capolavoro come
Don’t Make Her Cry, scritta all’inizio, a quattro mani, da
Bob Dylan e Regina McCrary, poi completata da Julie Miller e infine da
lei eseguita, col marito, rifacendosi al Joe Henry sfumato e accorato
delle ultime stagioni. Ci sono, inoltre, altri tre brani dello stesso
livello, che come l’intero In The Throes non diranno niente di
niente a chi non sia già sintonizzato su queste frequenze, ma rassicureranno
non poco chi sia alla (perenne) ricerca di una canzone d’autore limpida
e urgente come non si fa più.
Il sociologo belga Luc de Heusch parlava di "adorcismi", contrapposti
ai più frequenti esorcismi, di fronte ai rituali - rari sebbene più diffusi
di quanto non si creda - messi in pratica con lo scopo di favorire il
contatto con entità ritenute benefiche. Se potessi, invocherei un adorcismo
per farvi ascoltare il nuovo album di Buddy & Julie Miller: nella
speranza che immergersi nei suoi luminosi frammenti possa essere salutare,
per voi, quanto lo è stato per me.