Ho come l’impressione
che John Mellencamp non sia preso mai abbastanza sul serio, soprattutto
pensando agli ultimi (abbondanti) vent’anni della sua vicenda artistica,
nei quali ha prodotto alcuni fra gli album più personali in carriera,
compiendo quella naturale trasformazione da rocker ribelle a folksinger
riflessivo, e passando, nemmeno tanto idealmente, da Stones e James Brown
a Woody Guthrie e Bob Dylan. Naturalmente c’è ancora chi va alla ricerca
disperata del primo, e da lì forse nascono molte incomprensioni, qualche
presa in giro di troppo, nonché molta sottovalutazione critica, la stessa
che ha portato certa stampa americana a sbeffeggiare il recente Strictly
a One-Eyed Jack, disco di profonde e cupe meditazioni sullo scorrere
del tempo, che acquisiva un sound d’autore, attraversato da notturni blues
e languide trame folk rock. Certo, non hanno aiutato la causa del nostro
John il suo carattere rissoso, quel rendersi a volte un po’ arrogante,
e una mancanza di empatia che in realtà sembra più il riflesso di una
costante messa in discussione di sé e di chi gli sta di fronte.
Orpheus Descending, a conferma di una stagione assai prolifica,
arriva a stretto giro, poco più di un anno, dal suo predecessore e non
ha assolutamente intenzione di invertire la rotta: annunciato dalla “preghiera”
diretta del primo singolo, Hey God, con un senso di morte che aleggia
sulla canzone, legata al tema ingombrante della violenza delle armi negli
Stati Uniti, rafforzato dalla successiva, scintillante nel suo timbro
stradaiolo, The Eyes of Portland,
ispirata dall’incontro con una giovane senzatetto e dal lacerante dilemma
della povertà e dell’esclusione in America, il disco è il proseguimento
coerente, diremmo caparbio, di argomenti che stanno a cuore al songwriter
dell’Indiana, un settantenne cocciuto che ripercorre la sua vita con bilanci
che non fanno sconti a nessuno, lui per primo. E pazienza per chi ancora
non vorrà capire, anche perché Orpheus Descending musicalmente
recupera, almeno in parte, una baldanza elettrica che si muove sotto traccia,
sposando il suono rauco e tradizionalista del John Mellencamp innamorato
delle radici (da Trouble No More in poi, disco di cover che ha
fatto da spartiacque) con una spinta rock dal piglio rurale che si insinua
nella band e nelle chitarre (l'inseparabile Andy York).
L’effetto è un country blues invecchiato in una botte di primordiale rock’n’roll
del Midwest, dove la voce ormai scurita dagli anni (e dal troppo fumo)
di John può mettere alla berlina l’ipocrisia speciosa di quei “thoughts
and prayers” dei politici americani, ogni volta sbandierati dopo l’ennesima
tragedia avvenuta nell’America profonda. Chitarre slide e resofoniche
menano le danze, un suono brillante di organo e violino (torna alla corte
Lisa Germano) fa spesso da collante melodico, un modello musicale che
da The Lonesome Jubilee arriva fino alle ballate di Orpheus
Descending (anche il titolo, preso in prestito dall’omonima piece
teatrale di Tennessee Williams, non pare nascondere le ombre dell’esistenza),
ora innervate da una passione gospel e sottilmente southern negli accenti,
come accade di notare in Land Of The So Called
Free, nei bassi giri folk blues che alimentano il motore di
The Kindness Of Lovers e One More Trick, o ancora nella ritmica
funky che incalza e “sporca” i lineamenti della stessa title track.
Attraversato da una palese uniformità sonora, che per qualcuno potrebbe
apparire nuovamente come un limite, Orpheus Descending è
invece l’ennesimo segnale di una potente visione sull’american music,
lì dove Mellencamp non ha paura di abbandonarsi nelle braccia di un denso
gospel blues dalle trame dark in Amen
o nella malinconica eleganza di una ballata pianistica quale Understated
Reverence, canzoni che adesso lo avvicinano stilisticamente più a
Tom Waits e Randy Newman che non al rock da strada maestra di un tempo.
E restassero ancora dei dubbi su questo irreversibile processo di maturazione
e adattamento dell’autore, basterebbe citare due degli episodi più intensi
di tutto l’album: una lunga e discorsiva Lightning
And Luck, ballata di oltre sei minuti che sprigiona un’anima
dylaniana e rootsy, cullata da una melodia commovente e agrodolce, quindi
la chiusura con Backbone, luminosa,
risonante irish folk e roots&blues sound, gonfiata da voci, violino e
piano ad affiancare l'onnipresente chitarra resofonica. È ancora il John
Mellencamp del popolo e delle small town, in fondo, ma consapevole di
essere entrato nell’ultimo scorcio della sua vita.