È come quando
si finisce impantanati nel fango con la macchina: continuando a provare
ad andare avanti si finisce solo per sprofondare ulteriormente, per cui
spesso la soluzione migliore è fare retromarcia, e ripartire da capo provando
da un altro punto. Più o meno quello che sta accadendo a Jeff Tweedy,
un artista che stava attraversando un momento difficile, in cui, sia con
i Wilco che nei suoi album solisti, sembrava portare avanti un
dialogo con sé stesso e le proprie depressioni a volte un po’ troppo autoreferenziale
e involuto. Di fatto non ci sono grandi differenze tra Ode to Joy
dei Wilco o Warm firmato a suo nome, segno che la band in studio
si stava un po’ asservendo al suo stile sempre più intimo e scarno, situazione
resa ancora più evidente dal fatto che dal vivo i Wilco hanno invece continuato
a dare l’impressione di essere una macchina perfetta e rodatissima.
Poi è arrivato Cruel Country,
un disco che ridefiniva i Wilco come combo di talenti e non più come una
emanazione del solo Tweedy, e soprattutto un doppio album che faceva marcia
indietro recuperando quella tradizione rielaborata che ci offrirono con
tanti applausi con Being There del 1996. Che fu il punto di partenza
per la fase più felice e sperimentale della loro carriera, esattamente
come Cruel Country sa di un punto ripartenza che ha poi dato vita
a questo Cousin, il quale è se vogliamo il nuovo Yankee
Hotel Foxtrot dei Wilco degli anni Venti. E se allora la band si fece
aiutare dalle idee di Jim O’Rourke, oggi passano tutto attraverso la moderna
produzione di Cate Le Bon, che evita di tentare la band con le
sirene dell’elettronica (massicciamente usata invece nella produzione
recentemente offerta a Devendra Banhart), ma preserva il suono Wilco,
spingendoli però a tornare ad osare di più.
Infinite Surprise
si intitola il primo brano, e lo è di nome e di fatto, nella migliore
tradizione delle prime canzoni dei dischi dei Wilco, che hanno sempre
la funzione di spiazzare e annunciare di non mettersi troppo comodi, perché
nulla sarà come il disco precedente. E anche la storta Ten
Dead, che riporta a certe spigolature di Star
Wars, sembra voler proseguire un discorso di stravolgimento del tutto,
prima che la splendida Levee, una
nuova Impossible Germany che esalta il miglior songwriting melodico
di Tweedy, riporti tutto a casa. Ne è uscito vario, sfaccettato e forse
non del tutto definito questo Cousin, che anche nel suo prosieguo
alterna momenti da Wilco classici come Soldier Child ad altri più
impegnativi come la title-track.
Le buone notizie arrivano dal fatto che comunque Tweedy pare non aver
perso davvero la penna felice, e che la band sembra davvero più vogliosa
di farsi sentire, con i vari Nels Cline (che si è chiuso per due giorni
da solo con Cate Le Bon per definire il suono) e Pat Sansone più protagonisti,
anche se mai sovrastanti come è loro stile. Non sta piacendo a tutti Cousin,
e forse proprio il fatto di essere tornati a far discutere e a stuzzicare
dialoghi musicali è il primo grande successo di un album che avremo bisogno
di più tempo per definire all’interno della loro discografia, ma che sicuramente
non fa che confermare i Wilco come un punto di riferimento primario
per la musica americana degli ultimi trent’anni.