[*] recensione
pubblicata in occasione dell'uscita digitale, disco del mese giugno 2022
Il ritorno a casa, tra le
braccia della tradizione, è l’annunciato obiettivo del dodicesimo album
di studio dei Wilco. Fin qui le intenzioni e soprattutto la buona
strategia “promozionale” che ne anticipano l’uscita, quell’operazione
che intende costruire intorno a un disco una specifica narrazione. Cruel
Country rappresenterebbe dunque la discesa a patti, dopo tanti
anni di corteggiamento, con la country music, etichetta vagamente appiccicata
al corpo della band fin dai suoi esordi, ma concretamente mai realizzata
secondo i canoni più fedeli del genere, neppure quando il gesto musicale
del gruppo guidava la rivoluzione rock agreste di opere quali A.M.
e Being There.
Jeff Tweedy e soci scherzano con questa definizione, ne sfruttano alcune
suggestioni e rimandi, costruiscono quello che oggi si definirebbe - con
una di quelle brutte, abusate parole d’acchiappo giornalistico - uno storytelling
intorno a 21 nuove canzoni, doppio album (come ventisei anni fa, proprio
in occasione dello storico Being There) che annuncia un raccolto
abbondante accumulato in tempi di meditazioni da pandemia e ritiro forzato
dalle scene. La realtà possiede molte più sfaccettature e così ci accorgiamo
che Cruel Country nasconde nel titolo stesso la sua doppia natura:
c’è il richiamo a uno stile musicale, ma c’è anche l’identificazione con
la propria nazione, con quel “paese crudele” pronto a deluderti e confonderti
fra le sue mille contraddizioni. Queste canzoni di amore e morte, di confessioni
dolorose e desiderio di perdono ruotano dunque intorno a questo gioco
di specchi e offrono senza dubbio il disco tematicamente più uniforme
e interessante della loro recente produzione: Cruel Country,
inciso in buona parte dal vivo nel loro ormai leggendario The Loft di
Chicago, si mostra così, strada facendo, quale album di candide osservazioni,
dalle dinamiche intime ed elettro-acustiche, dove un cantautorato dalla
sensibilità indie e pop si trascina per la campagna country e le fioriture
folk rock, ma mantiene un equilibrio tra i citati esordi della band e
tutto quello di importante e avventuroso costruito dopo.
Nei due minuti e mezzo di docili sussulti di I
Am My Mother è racchiusa la sintesi di questo approccio,
che non si allontanerà mai da tale sceneggiatura, in fondo nemmeno tanto
distante dall’ultimo Jeff Tweedy solista di Love
is The King, del quale Cruel Cuntry potrebbe rappresentare
l’elaborazione in chiave più rurale, qui trattenuta nel clop clop ritmico
da tranquilla cavalcata della title track, nella miniatura acustica e
dolente di Ambulance, nel marcato
accento twang delle chitarre in Falling Apart (Right Now) e A
Lifetime to Find, i momenti questi ultimi più vicini al fantasma di
Gram Parsons, oppure nella versione aggiornata al 2022 di Far Far Away
(erano ancora i tempi di Being There) che oggi corrisponde
al titolo di Please Be Wrong.
E allora diciamolo pure che i Wilco non hanno mai suonato country (per
fortuna, perché la loro direzione si è sempre posizionata oltre, come
sottolinea un titolo a suo modo geniale quale Country Song Upside Down),
sebbene in Cruel Country trovino una loro via, l’ennesima, per navigare
sul grande fiume della tradizione dell’american music, suonando adesso
più trattenuti e rilassati del solito, un "laid back" che passa
per il bisbigliare rarefatto di Darkness is Cheap, per quel formato
ballata “alla Wilco” che è il frutto dei tanti passaggi e delle mille
giravolte sonore di questi anni, ma mantiene una sua riconoscibile struttura,
qui espressa nell’agrodolce e indifesa bellezza di Hints
e Tired of Taking It With You, nell’ondeggiare di All Across
the World e Hearts Hard to Find, quintessenza dello stile Tweedy,
nelle miniature pop acustiche di Sad Kind of Way.
In questa costruzione tutt’altro che improvvisata, nonostante il tenore
informale delle incisioni, la band intorno a Tweedy non è per nulla appariscente,
le chitarre di Nels Cline e Pat Sansone e la batteria di Glen Kotche sembrano
suonare adesso più che mai dentro e dietro le canzoni, delineandone piccoli
dettagli, lasciando fuori dalla porta una certa esuberanza strumentale
che era in passato un motivo di vanto e un tratto distintivo. Si concedono
giusto una (piacevolissima) digressione nel dittico Bird
Without a Tail/ Base of My Skull, sorta di lievitazione tra
indie folk e country cosmico che immaginiamo già assumere forme interessanti
dal vivo, magari sfiorando anche una certa leggerezza nell’arrangiamento
di Mistery Binds, ma sempre tenendosi aggrappati a una lunga sequenza
di languori folk, il cui unico difetto, perdonabile, è proprio l’eccessiva
abbondanza di materiale, la stessa che qualche volta rischia persino di
far passare inosservati i gioielli sparsi lungo tutta la Cruel Country
americana.