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Wilco
Cruel Country
[dBpm records 2022]

Sulla rete: wilcoworld.net

File Under: this is my country


di Fabio Cerbone (26/01/2023)

[*] recensione pubblicata in occasione dell'uscita digitale, disco del mese giugno 2022

Il ritorno a casa, tra le braccia della tradizione, è l’annunciato obiettivo del dodicesimo album di studio dei Wilco. Fin qui le intenzioni e soprattutto la buona strategia “promozionale” che ne anticipano l’uscita, quell’operazione che intende costruire intorno a un disco una specifica narrazione. Cruel Country rappresenterebbe dunque la discesa a patti, dopo tanti anni di corteggiamento, con la country music, etichetta vagamente appiccicata al corpo della band fin dai suoi esordi, ma concretamente mai realizzata secondo i canoni più fedeli del genere, neppure quando il gesto musicale del gruppo guidava la rivoluzione rock agreste di opere quali A.M. e Being There.

Jeff Tweedy e soci scherzano con questa definizione, ne sfruttano alcune suggestioni e rimandi, costruiscono quello che oggi si definirebbe - con una di quelle brutte, abusate parole d’acchiappo giornalistico - uno storytelling intorno a 21 nuove canzoni, doppio album (come ventisei anni fa, proprio in occasione dello storico Being There) che annuncia un raccolto abbondante accumulato in tempi di meditazioni da pandemia e ritiro forzato dalle scene. La realtà possiede molte più sfaccettature e così ci accorgiamo che Cruel Country nasconde nel titolo stesso la sua doppia natura: c’è il richiamo a uno stile musicale, ma c’è anche l’identificazione con la propria nazione, con quel “paese crudele” pronto a deluderti e confonderti fra le sue mille contraddizioni. Queste canzoni di amore e morte, di confessioni dolorose e desiderio di perdono ruotano dunque intorno a questo gioco di specchi e offrono senza dubbio il disco tematicamente più uniforme e interessante della loro recente produzione: Cruel Country, inciso in buona parte dal vivo nel loro ormai leggendario The Loft di Chicago, si mostra così, strada facendo, quale album di candide osservazioni, dalle dinamiche intime ed elettro-acustiche, dove un cantautorato dalla sensibilità indie e pop si trascina per la campagna country e le fioriture folk rock, ma mantiene un equilibrio tra i citati esordi della band e tutto quello di importante e avventuroso costruito dopo.

Nei due minuti e mezzo di docili sussulti di I Am My Mother è racchiusa la sintesi di questo approccio, che non si allontanerà mai da tale sceneggiatura, in fondo nemmeno tanto distante dall’ultimo Jeff Tweedy solista di Love is The King, del quale Cruel Cuntry potrebbe rappresentare l’elaborazione in chiave più rurale, qui trattenuta nel clop clop ritmico da tranquilla cavalcata della title track, nella miniatura acustica e dolente di Ambulance, nel marcato accento twang delle chitarre in Falling Apart (Right Now) e A Lifetime to Find, i momenti questi ultimi più vicini al fantasma di Gram Parsons, oppure nella versione aggiornata al 2022 di Far Far Away (erano ancora i tempi di Being There) che oggi corrisponde al titolo di Please Be Wrong.

E allora diciamolo pure che i Wilco non hanno mai suonato country (per fortuna, perché la loro direzione si è sempre posizionata oltre, come sottolinea un titolo a suo modo geniale quale Country Song Upside Down), sebbene in Cruel Country trovino una loro via, l’ennesima, per navigare sul grande fiume della tradizione dell’american music, suonando adesso più trattenuti e rilassati del solito, un "laid back" che passa per il bisbigliare rarefatto di Darkness is Cheap, per quel formato ballata “alla Wilco” che è il frutto dei tanti passaggi e delle mille giravolte sonore di questi anni, ma mantiene una sua riconoscibile struttura, qui espressa nell’agrodolce e indifesa bellezza di Hints e Tired of Taking It With You, nell’ondeggiare di All Across the World e Hearts Hard to Find, quintessenza dello stile Tweedy, nelle miniature pop acustiche di Sad Kind of Way.

In questa costruzione tutt’altro che improvvisata, nonostante il tenore informale delle incisioni, la band intorno a Tweedy non è per nulla appariscente, le chitarre di Nels Cline e Pat Sansone e la batteria di Glen Kotche sembrano suonare adesso più che mai dentro e dietro le canzoni, delineandone piccoli dettagli, lasciando fuori dalla porta una certa esuberanza strumentale che era in passato un motivo di vanto e un tratto distintivo. Si concedono giusto una (piacevolissima) digressione nel dittico Bird Without a Tail/ Base of My Skull, sorta di lievitazione tra indie folk e country cosmico che immaginiamo già assumere forme interessanti dal vivo, magari sfiorando anche una certa leggerezza nell’arrangiamento di Mistery Binds, ma sempre tenendosi aggrappati a una lunga sequenza di languori folk, il cui unico difetto, perdonabile, è proprio l’eccessiva abbondanza di materiale, la stessa che qualche volta rischia persino di far passare inosservati i gioielli sparsi lungo tutta la Cruel Country americana.


    



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