“Questo album, le canzoni,
il suono... tutto è il prodotto delle mie origini, sia a livello musicale
che di ambiente”. Brent Cobb insegue la sua Southern Star,
invertendo la normale direzione di chi va in cerca di un punto di riferimento
nel cielo per non perdere la rotta della vita: niente Stella Polare per
lui, ma un viaggio di ritorno verso la Georgia, il sud e le sue radici
musicali, quel crogiolo di stili e umori che ha costituito l’ossatura
dell’american roots music. Deve avere giocato un ruolo essenziale
in questa scelta il bagno rigeneratore nel gospel compiuto con il precedente
And Now Let’s Turn To Page, album “di passaggio”, ma sentito nella
sua realizzazione, tanto da fare emergere forte e chiaro il calore di
quel southern feeling che avvolge la scrittura di Brent.
Cugino del più famoso produttore Dave Cobb, il quale aveva spesso collaborato
nei dischi precedenti, Brent si è ritagliato uno spazio particolare sulla
scena Americana, un modo di porgersi fra country d’autore e fragranze
sudiste che lo distinguono da altri assai più celebrati protagonisti della
nuova onda. Un peccato che non abbia ottenuto maggiori riscontri, ma la
sua musica è naturalmente votata a una certa sobrietà, un mood pigramente
allineato al carattere della sua terra di provenienza (Ellaville, Georgia),
che si riflette anche nel suo modo di cantare, un “laid back” con inflessioni
country soul che è il migliore viatico per esprimere i ricordi che infondono
queste canzoni.
Per la prima volta prodotto in solitaria dallo stesso Cobb, attorniato
da una piccola squadra di musicisti locali dove non brillano prime donne,
ma tutti si adeguano all’atmosfera generale dell’album, Southern
Star riflette sulla propria strada e le proprie origini, cucinando
in casa dieci brani che accarezzano l’ascolto con quel racconto dimesso
e domestico che la stessa title track annuncia in partenza: i languori
della voce narrante e una deliziosa tavolozza di colori offerta dalle
tastiere di Jimmy Matt Rowland e dalle chitarre delle stesso Brent e di
Charlie Gilbert portano sulla strada che fu di gente come JJ Cale, in
più con quella leggera brezza country che resuscita lo spirito di un maestro
di stile dimenticato come Don Williams.
Di tanto in tanto qualche coro scalda l’ambiente e il gioco è fatto, siamo
già con le ruote appoggiate su una sperduta southern road, pronti a farci
incantare dal racconto di Cobb, che ha il piglio del cantastorie teneramente
elettro-acustico in It’s a Start, Kick the Can e Patina,
ma sa anche quando insaporire la sua musica con un groove più acceso,
facendo entrare l’armonica di Chris Hicks (un passato leggendario con
Gregg Allman, Marshall Tucker Band e molti altri) e toccando il morbido
funkeggiare di Livin’ the Dream. D’altronde,
per un disco registrato presso i famosi studi della Capricorn di Macon,
Georgia poteva mai esserci un destino diverso? E allora dentro le chitarre
piccanti, il piano boogie e le voci femminili di On’t Know When
e Devil Ain’t Done, che guardano ai
Lynyrd Skynyrd meno irruenti e più rapiti dalla tradizione, mentre When
Country Came Back to Town è un titolo (e non solo quello...) che avrebbe
fatto colpo su Waylon Jennings e Shade Tree un ultimo soffio dell’anima
della Georgia che ci porta al riparo là sotto, all’ombra di un grande
albero, insieme ai ricordi di Brent Cobb.