Parla, scrivi
e quindi canta di quello che conosci: il vecchio adagio della narrativa
americana più realista si adatta anche all’esperienza dei songwriter,
regole che insegnano nelle scuole di scrittura e che Ian Noe forse
ha imparato da solo, rubando i segreti dai dischi di qualche maestro che
ha mandato a memoria. Il “piccolo mondo” ritratto in River Fools
& Mountain Saints - titolo che gli è arrivato in sogno, prima
di iniziare a incidere qualsiasi nota, così racconta - è quello della
Lee County, Kentucky, terra povera di minatori, luogo di nascita e di
crescita del musicista, già tratteggiato con forza in quello splendido
esordio di tre anni fa, Between
the Country.
Se allora c’erano Junk Town e Meth Head da cantare con versi
spietati, oggi si rincorrono, in Strip Job Blues 1984, Tom Barrett,
Ballad of a Retired Man, Lonesome as it Gets, immagini di
veterani e vecchi soldati, di camionisti fiaccati dalla strada, di gente
che tira a campare con metodi poco legali e di un ambiente, quello della
regione degli Appalachi, avvolto in una nebbia di inquinamento, esteriore
e interiore al tempo stesso (Appalachia Haze,
spettrale e bellissima, con la pedal steel che pare sottolineare l’emergere
lento e inesorabile della foschia sulla montagna). Nel mezzo ci sono comunque
l’amore e il desiderio di rompere l’isolamento, anche causato dalla pandemia,
quello che emerge forte e chiaro nell’apertura da manuale del roots rock
di Pine Grove (Madhouse), primo singolo scelto anche per indicare
una piccola, cruda svolta elettrica che tuttavia si farà strada raramente
in River Fools & Mountain Saints, dal risonante battito di POW
Blues all’evocazione orgogliosa delle tradizioni dei nativi americani
in Burning Down the Prairie, tagliata
a fette da un’acida chitarra blues.
Un disco che nell’insieme non sposta di una virgola il senso di fare musica
di Ian Noe, avvolto dal fantasma del mentore John Prine, che sbuca in
ogni anfratto di queste note, ma ne scolpisce con più precisione i sentimenti:
la comunità è tutto, ma non per una cieca, ottusa chiusura al mondo, semmai
per trovare il senso più profondo delle esistenze che canta. E allora
River Fool, antica danza hillbilly per chitarre e mandolino che
sembra davvero uscire dall’omonimo esordio di Prine del 1970, e Mountain
Saint, malinconico racconto folk rock da America perduta di provincia,
sono davvero due facce della stessa medaglia, due scorci musicali che
si guardano compassionavoli dalle sponde opposte del fiume. River Fools
& Mountain Saints si trasforma così in un romanzo musicale che parla
la stessa lingua di certi scrittori che hanno illuminato quell’angolo
di heartland americano: c’è la grazia rurale delle storie di Wendell Berry
(Jayber Crow, Lindau) e la spietatezza di Chris Offutt (Country
Dark, minimumfax), magari passando per il più recente David Joy (Queste
montagne bruciano, Jimenez).
È questa la colonna sonora ideale, che Ian Noe ha registrato peregrinando
per due anni con pazienza, aiutato tra gli altri dal basso di Jack Lawrence
(The Raconteurs) e dalle tastiere di Derry deBorja (Jason Isbell & the
400 Unit), ma soprattutto da un nuovo produttore cercato insistentemente
a Nashville, Andrija Tokic, che ha sostituito Dave Cobb senza colpo ferire:
nonostante la provenienza da un’area più sensibilie al linguaggio dell’indie
rock e del pop, non ha saggiamente toccato gli spigoli e le verità dell’autore
Ian Noe, semmai spingendolo a sentirsi più libero di sperimentare. Piace
pensare che sia nata così Road May Flood/ It's
a Heartache, l’unico finale possibile per questo disco: è un
colpo al cuore, una lacrima versata per la terra martoriata del Kentucky,
quattro accordi che aggiungono di strofa in strofa piccoli dettagli, un
piano, una steel guitar e finanche un dolce tappeto di archi, tratteggiando
la vita intera di un uomo nello spazio di pochi versi. Ci riescono solo
i fuoriclasse.