Lo sguardo interiore che
aveva conquistato la scrittura musicale di John Moreland nel precedente
LP5
(semplicemente dal numero di album fino ad allora pubblicati) si è fatto
ancora più totalizzante nel nuovo capitolo intitolato Birds in the
Ceiling. Sarà l’effetto dell’isolamento e della pandemia, che
hanno messo lo zampino un po’ dappertutto e inevitabilmente hanno influenzato
l’ispirazione di tanti autori, ma il songwriter di Tulsa, tra le voci
più autentiche liberate dalla provincia americana in questi anni, ha scelto
una volta di più la strada dell’introspezione, meditazioni in solitaria
come le definisce egli stesso, conversazioni a tu per tu con la prorpia
anima che finiscono per imprigionare il suono in una lunga, indistinta
sequenza di ballate acustiche.
È la negazione o quasi dell’impronta più heartland e dall’anima roots
rock che aveva entusiasmato nel gioiello High
on Tulsa Heat e nell’ottimo seguito di
Big
Bad Luv. Qui affiancato ancora dall’opera di Matt Pence
in fase di produzione, Moreland sceglie il sussurro e la confessione,
stendendo il lenzuolo del suo stile in fingerpicking di educazione country
folk su un morbido letto di ammenicoli e loop elettronici, piccoli scarti
ritimici che fanno da tappezzeria a una scaletta troppo simile e incartata
su se stessa. Curando tutte le parti di chitarra, sorretto solo da qualche
intervento al piano del collega John Calvin Abney e dallo stesso Pence,
John Moreland è talmente convinto dell’efficacia del nuovo corso da non
accorgersi che fra il lento cullare di Ugly Faces e il finale della
title track non esiste sostanzialmente un seppur timido cambio di prospettiva.
Ci sono sì parole profonde, una voce che sa ammaliare anche nel tono più
discorsivo di oggi, ma quando si arriva al cuore della canzone la questione
sembra perdersi in brani freddi, melodicamente un po’ schiacciati su questa
onda sonora di “folktronica”, che episodi quali Lion’s Den e Cheap
Idols Dressed in Expensive Garbage bene riassumono in tutti i loro
limiti.
La capacità di raccontare lo sradicamento e la confusione dei moderni
tempi americani, la relativa solitudine umana e la ricerca della bellezza
in se stessi resta un punto di forza del suo metodo narrativo, ma in mezzo
ai giochini elettronici e al divagare malinconico della chitarra di Moreland,
canzoni come Generational Dust, Claim Your Prize o la languida
Neon Middle June (comunque tra le più interessanti per via dell’intermezzo
pianistico) restituiscono quella monotonia dei sentimenti che già emergeva
nel citato LP5 e che adesso sembra celarsi dietro un’apprezzamento,
a detta dello stesso John Moreland, per una scrittura più pop. Sarà, ma
l’impressione è che del linguaggio pop manchino completamente l’immediatezza
e anche l’abilità spesso di risultare profondi con le armi della semplicità.
Queste sembrano piuttosto ballate un po’ noiose.