Un viaggio interiore, di
scoperta e confronto con se stesso, ha posto John Moreland di fronte
allle nuove canzoni che compongono LP5, copertina minimalista
e titolo un po’ anonimo, che tiene semplicemente il conto delle sue uscite
discografiche. È una sorta di ripartenza e di conquista, senz’altro la
raccolta che racchiude più confessioni personali in tutta la sua carriera.
Il folksinger dell’Oklahoma rappresenta da qualche anno una delle voci
più intense e belle della giovane America profonda, un nome su cui scommettere
per chi crede ancora nella devastante forza narrativa della canzone americana,
in quel roots d’autore su cui poggia la scrittura fuori del tempo di Moreland.
Il suo era un puro spaccato di heartland americano, nel tempo arricchito
da suoni più elettrici, con il passaggio dall’ottimo High
on Tulsa Heat alla fugace e curiosa apparizione su 4AD (l’etichetta
più distante che si potesse immaginare da questo suono) con Big
Bad Luv.
LP5 torna all’indipendenza, ma sceglie per la prima volta di lavorare
con un produttore esterno, Matt Pence, già noto per la sua collaborazione
con Jason Isbell, e anch’egli musicista (con i texani Centro-Matic) guidato
da un’impostazione fra indie rock e radici. L’incontro ha condotto al
suono più dilatato e impressionista di questi brani, dove il canto e le
parole di John Moreland scaldano ancora il cuore, ma appaiono più avviluppati
nei propri pensieri. Harder Dreams
annuncia questa sorta di autoanalisi dei propri peccati e anche la ricerca
di un senso al proprio mestiere di songwriter, dopo che per due anni Moreland
aveva subito una specie di blocco di scrittura. Le fondamenta restano
acustiche, folkie nell’animo, con quel tono malinconico da provincia depressa,
ma il sound acquista sfumature ritmiche più moderne, piccoli scatti di
lato e poco più, in Terrestrial e nella dedica d’amore per la moglie
in When My Fever Breaks, oppure fra qualche pennellata di synth
e organo che aleggia nell’aria, per esempio in A
Thought Is Just a Passing Train ed East Corner.
La differenza con il passato è la mancanza di un po’ di polvere e di quella
tipica “ruggine americana”: assenti le brusche parentesi roots rock, l’oggetto
si concentra allora sulle meditazioni dello stesso Moreland, nell’austero
orizzonte di Learning How To Tell Myself the Truth e una commovente,
acustica In Times between, per l’amico
musicista Chris Porter, scomparso nel 2016 durante un tour. Il tepore
raccolto dell’incisione e le leggere sperimentazioni sonore di Pence,
sempre in sottrazione, ricordano parecchio i tentativi solisti di Jay
Farrar (Son Volt), anche se sulla distanza LP5 appare un po’ “appesantito”
da questa uniformità di linguaggio: un paio di strumentali non strettamente
indispensabili (soprattutto il gioco di For Ichiro), nonchè l’impressione
che quando tutto torna alla più pura essenza folk (il finale di Let
Me Be Understood) John Moreland sia davvero al comando, rendono questo
album una scommessa in parte mancata e in parte foriera di possibili approdi
futuri.