John Moreland
Lp5

[Old Omen/ Thirty Tigers 2020]

johnmoreland.net

File Under: confessional americana

di Fabio Cerbone (10/02/2020)

Un viaggio interiore, di scoperta e confronto con se stesso, ha posto John Moreland di fronte allle nuove canzoni che compongono LP5, copertina minimalista e titolo un po’ anonimo, che tiene semplicemente il conto delle sue uscite discografiche. È una sorta di ripartenza e di conquista, senz’altro la raccolta che racchiude più confessioni personali in tutta la sua carriera. Il folksinger dell’Oklahoma rappresenta da qualche anno una delle voci più intense e belle della giovane America profonda, un nome su cui scommettere per chi crede ancora nella devastante forza narrativa della canzone americana, in quel roots d’autore su cui poggia la scrittura fuori del tempo di Moreland. Il suo era un puro spaccato di heartland americano, nel tempo arricchito da suoni più elettrici, con il passaggio dall’ottimo High on Tulsa Heat alla fugace e curiosa apparizione su 4AD (l’etichetta più distante che si potesse immaginare da questo suono) con Big Bad Luv.

LP5 torna all’indipendenza, ma sceglie per la prima volta di lavorare con un produttore esterno, Matt Pence, già noto per la sua collaborazione con Jason Isbell, e anch’egli musicista (con i texani Centro-Matic) guidato da un’impostazione fra indie rock e radici. L’incontro ha condotto al suono più dilatato e impressionista di questi brani, dove il canto e le parole di John Moreland scaldano ancora il cuore, ma appaiono più avviluppati nei propri pensieri. Harder Dreams annuncia questa sorta di autoanalisi dei propri peccati e anche la ricerca di un senso al proprio mestiere di songwriter, dopo che per due anni Moreland aveva subito una specie di blocco di scrittura. Le fondamenta restano acustiche, folkie nell’animo, con quel tono malinconico da provincia depressa, ma il sound acquista sfumature ritmiche più moderne, piccoli scatti di lato e poco più, in Terrestrial e nella dedica d’amore per la moglie in When My Fever Breaks, oppure fra qualche pennellata di synth e organo che aleggia nell’aria, per esempio in A Thought Is Just a Passing Train ed East Corner.

La differenza con il passato è la mancanza di un po’ di polvere e di quella tipica “ruggine americana”: assenti le brusche parentesi roots rock, l’oggetto si concentra allora sulle meditazioni dello stesso Moreland, nell’austero orizzonte di Learning How To Tell Myself the Truth e una commovente, acustica In Times between, per l’amico musicista Chris Porter, scomparso nel 2016 durante un tour. Il tepore raccolto dell’incisione e le leggere sperimentazioni sonore di Pence, sempre in sottrazione, ricordano parecchio i tentativi solisti di Jay Farrar (Son Volt), anche se sulla distanza LP5 appare un po’ “appesantito” da questa uniformità di linguaggio: un paio di strumentali non strettamente indispensabili (soprattutto il gioco di For Ichiro), nonchè l’impressione che quando tutto torna alla più pura essenza folk (il finale di Let Me Be Understood) John Moreland sia davvero al comando, rendono questo album una scommessa in parte mancata e in parte foriera di possibili approdi futuri.


    


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