Un ritorno alla terra del
Vermont, quella che le ha dato i natali quarant’anni fa, e una riflessione
sulle proprie radici, su ciò che è rimasto della bambina di un tempo,
allevata nella casa dei nonni, e ciò che la vita, l’amore, gli affetti
hanno ancora da offrire in prospettiva. Sono alcune delle tematiche che
muovono il songwriting di Anaïs Mitchell nel suo ritorno solista
a dodici anni dal precedente lavoro, Young
Man in America. Una pausa interminabile per i tempi della discografia
moderna, sebbene Anais non fosse mai uscita di scena, preferendo “nascondersi”
dentro altri progetti musicali: il trio dei Bonny
Light Horseman, innanzitutto, dove la sua voce brillava in
primo piano, con i Big Red Machine dell’amico Justin Vernon, o nel recupero
delle antiche ballate folk di Child Ballads, in coppia con Jefferson
Hamer. E naturalmente nella cura dell’edizione teatrale di Hadestown,
traduzione per Broadway del suo disco più fortunato, quella saga a più
voci ispirata al mito greco che le è valso persino un Grammy.
Artista comunque schiva e parsimoniosa nell’esporsi in prima persona,
centellinando quello che ha davvero da offrire con le sue canzoni, Anaïs
Mitchell riparte da un album che non ha nulla da dimostrare e forse neppure
nuove conquiste da svelare dal punto di vista sonoro, piuttosto ribadendo
le qualità di una delle migliori voci femminili del folk americano degli
ultimi vent’anni. Dieci canzoni che fluttuano tra il celestiale e l’intimo,
toccate dalla solita impeccabile sensibilità melodica, dolcissima e personale
nell’intreccio di accordature e tenui scelte ritmiche: Anaïs Mitchell
è un disco che per forza di cose non si discosta da quanto mostrato, per
esempio, con i Bonny Light Horseman (Revenant e gli effluvi di
Backroads provengono idealmente da lì), vedendo coinvolto il membro
di questi ultimi, Josh Kaufman, alla produzione, il quale chiama in studio
il contributo di Michael Lewis, JT Bates, Thomas Bartlett, Aaron Dessner
e dell’arrangiatore Nico Muhly per archi e fiati.
Se per la prima volta mancano davvero le sorprese stilistiche, l’attenzione
è sulle parole e il canto: quest’ultimo si apre sulla languida melodia
pianistica di Brooklyn Bridge, l’abbandono di New York prima della
pandemia e incinta al nono mese della figlia, in direzione del Vermont,
e si chiude dopo un viaggio di riscoperta di sé tra le braccia altrettanto
accoglienti di Watershed, sempre guidata dal pianoforte e da un
garbato manto sonoro in sottofondo. Alternando giochi elettro-acustici
che rappresentano l’intima essenza della scrittura musicale della Mitchell,
nonché la migliore coperta dentro la quale avvolgere la sua interpretazione
fanciullesca e apparentemente indifesa (il primo singolo Bright
Star ne rappresenta l’annuncio), l’album tocca ancora momenti
di grande poetica folk e bellezza pop al tempo stesso, come accade in
On Your Way (Felix Song), dedica
speciale allo scomparso produttore Edward “Felix” McTeigue, nella più
raminga Little Big Girl e fra il consolatorio linguaggio folk (Real
World, Now You Know) che l’ha formata come musicista e autrice.
Un disco importante più per se stessa che non per un’affermazione artistica
ormai assodata, vista la centralità di Anaïs Mitchell tra le folksinger
della sua generazione.