Ritrovare la voce di Anais
Mitchell, una delle più ispirate dell’ultima generazione folk al femminile,
è già un piccolo miracolo di cui essere grati, a sette anni ormai dalla
raccolta Child
Ballads in coppia con Jefferson Hamer. Vederla poi coinvolta
in una nuova rielaborazione della tradizione inglese, in questa occasione
materializzatasi nella forma del trio Bonny Light Horseman, con
Eric D. Johnson (animatore dei Fruit Bats) e Josh Kaufman (produttore
conosciuto soprattutto per il lavoro con Craig Finn, Josh Ritter e The
National), estende il fascino della sua ricerca dentro il linguaggio acustico
e arcaico della ballata.
Un’operazione lontana da qualsiasi intento agiografico o di puro omaggio
storico, ci tiene subito a ribadire la stessa Mitchell insieme ai suoi
compagni di avventura: l’omonimo esordio del trio ha il sapore sfuggente
e cristallino di una folk music sempre più in rinascita, con lo sguardo
rivolto al valore universale di questi brani, riletti e intepretati con
un occhio di riguardo al lato emozionale, all’atmosfera umana che possono
evocare, ai rinnovati significati che tendono ad assumere nel mondo moderno.
E ancora una volta l’alchimia viene trovata: merito di musicisti sensibili,
di armonie vocali e tessiture acustiche che anelano alla bellezza senza
risultare stucchevoli o minimamente artefatti. Se avete apprezzato l’elegenza
e la profondità sonore degli ultimi album di Joe Henry, anche nel suo
ruolo di produttore (penso soprattutto al binomio con gli Over the Rhine),
se avevate già colto l’approccio della stessa Mitchell nel citato Child
Ballads (altro meritevole percorso intorno all’eredità del folk britannico),
se ricordate con piacere il tepore degli esordi di Bon Iver, troverete
nel trasporto evasivo, cullante delle chitarre e delle voci di Bonny
Light Horseman (album e brano omonimo, posto non a caso in apertura)
un manifesto dello stile della band, completata da Michael Lewis al basso
e sax, e JT Bates alla batteria.
L’incontro ufficiale fra i tre attori principali, che avevano già incrociato
in qualche modo i loro destini musicali, è avvenuto nel corso dell’ultima
edizione dell’Eaux Claires festival. Un soggiorno a Berlino, su invito
dell’amico Bon Iver, per uno scambio artistico presso lo studio The Funkhaus,
ha cementato l’idea di un disco, quindi completato nella scorsa primavera
in America. L’esito è il tenero ondeggiare di The
Roving, con una Mitchell sublime nel carezzare i versi di un’antica
ballata, la filastrocca reinventata di Jane Jane e una Blackwaterside
che si mette sulle tracce di misteri irrisolti. Le armonizzazioni e l’intesa
con Johnson e Kaufman, il primo spesso co-protagonista al canto (fanciullesco
quanto la controparte femminile in Mountain Rain), sono un piccolo
prodigio di grazia, che si dischiude alla luce di Deep
in Love e si lascia lusingare dal picking acustico di Magpie’s
Nest.
L’anima è nelle chitarre acustiche e nel timbro elusivo delle voci, ma
indispensabili sono anche i contrappunti di piano, sax, armonica, soffi
leggeri che sottendono l’incanto di Lowlands, l’echeggiare di Bright
Morning Stars, prima che il viaggio del cuore e del tempo dei Bonny
Light Horseman si adagi sul walzer sognante di 10,000
Miles. Un album di commozione pura.