Erano i primi
anni del secolo scorso quando il sociologo tedesco Max Weber, perplesso
di fronte a una modernità che percepiva come snaturata e disumanizzata
dalla cosiddetta "razionalità strumentale" (ossia l’uso della
ragione finalizzato non più al servirsi della natura ma a esercitare il
proprio dominio su altri esseri umani), si mise a teorizzare il "disincanto
del mondo", la delusione di fronte a un’idea del progresso in procinto
di sovrapporsi a un puro istinto di sopraffazione. This Mess We’re
In, opera terza di Arlo McKinley da Cincinnati, Ohio, l’ultimo
artista essere scritturato dalla Oh Boy di John Prine e di suo figlio
Jody Whelan prima della morte dell’autore di Sam Stone, sembra
vivere lo stesso disincanto, non più weberiano, in questo caso, bensì
derivante da una profonda malinconia del presente, dalla consapevolezza
di vivere tra un passato in qualche modo negato (perché ai marginali,
agli irregolari, ai poveri e agli sbandati è oggi preclusa la promessa
di felicità e realizzazione personale dell’America) e un futuro che non
c’è, o al limite può essere inventato e annunciato soltanto come catastrofe.
Da qui il carattere il carattere luttuoso, di decadenza psicologica e
morale, riscontrabile tra le undici canzoni di This Mess We’re In,
non a caso elaborato dopo la morte della madre e del miglior amico del
suo artefice (nel frattempo testimone del soccombere di molti altri conoscenti
a forme più o meno severe di tossicodipendenza) e quindi concepito anche
in forma di terapia, di ponte verso il domani tramite cui superare (si
spera indenni) le inevitabili sofferenze della vita di tutti i giorni.
Più originale e meno countreggiante del comunque ottimo predecessore (Die
Midwestern di due stagioni or sono, anch’esso un ritorno alle
radici d’una comunità rurale tutta da ricostruire), l’album finisce così
per assomigliare a una traduzione appena più gentile della media dei temi
e del linguaggio di Ian
Noe, molto vicino a McKinley per la sensibilità e il realismo
coi quali descrive una heartland vista alla stregua di un paesaggio in
rovina, retaggio di dolore e ferite ancora aperte: se però il primo insiste
sull’asciuttezza, facendo coincidere l’essenzialità del proprio vocabolario
folk con lo spirito tagliente di canzoni e narrazioni, il secondo cerca
invece una dialettica con rock e country in grado di ammorbidire, per
lo meno a tratti, il peso della sconfitta quotidiana altrimenti serpeggiante
in ogni brano.
Nascono così pezzi magari meno significativi di altri, per esempio due
capitoli all’insegna del puro rock & roll quali To Die For e Rushintherug,
in ogni caso interpretati con classe infinita da un gruppo di musicisti
dove spicca l’intreccio tra le chitarre a spina staccata di Matt Ross-Spang
(anche produttore) e quelle elettriche dell’ottimo Will Sexton (fratello
del texano Charlie), senza dimenticare le bacchette precise e volutamente
anti-spettacolari di Ken Coomer (qualcuno lo ricorderà nelle fila dei
primi Wilco); pezzi meno significativi, si diceva, ma non per questo poco
riusciti, e soprattutto necessari, come il country-rock della coinvolgente
Back Home (in duetto con l’astro
nascente appalachiano Logan Halstead), alla creazione di un’alternanza
emotiva con la dimensione cupa e sconsolata della pur bellissima
Stealing Dark From The Night Sky, dolente ruminazione folkie
sull’insediarsi della depressione all’interno di un animo umiliato, con
l’angosciato riff acustico che introduce la parimenti bellissima Dancing
Days prima della trasformazione in ballata rock o con gli umori
decisamente alla John Prine, quindi di ottimismo dolceamaro, di City
Lights. In I Wish I si respira un soffio di gospel e in
Where You Want Me l’ampiezza del miglior rock delle radici, mentre
l’ultima Here’s To The Dying, con
le sue sventagliate di organo e Wurlitzer (entrambi affidati alle mani
sapienti del veterano Rick Steff), avrebbe fatto felice il Jackson Browne
confessionale dei ’70.
Arruolato nel coro della parrocchia battista frequentata dai suoi familiari
all’età di otto anni, Arlo McKinley è uno dei tanti figli del Midwest
che hanno visto andare in pezzi il tessuto sociale faticosamente costruito,
intorno a loro, da genitori e altri membri delle (piccole) comunità della
provincia, trovandosi a vivere, oggi, in un sentimento permanente di abbandono.
Eppure, se il dolore della perdita può avere un effetto trasformatore,
se la malinconia può diventare un’incitazione all’impegno verso gli altri
fino a ricostruire una nuova connessione sociale, allora, di questo cambiamento,
abbiamo già cantore e colonna sonora: si chiamano, rispettivamente, Arlo
McKinley e This Mess We’re In.