Musicista abituata a concepire
il songwriting come una paziente forma di cura, quasi di guarigione personale,
Mary Gauthier non poteva non affrontare i due anni di pandemia
come l’occasione per leggere dentro se stessa, e in chi la circonda, un
desiderio al tempo stesso di amore e di perdita. Il primo album di materiale
interamente originale da otto anni a questa parte – e giunto a quattro
dal precedente Rifles
and Rosary Bead, disco nato in collaborazione con i veterani
della guerra in Iraq, che le è valso una nomination ai Grammy - Dark
Enough to See The Stars è fatto di una materia che ha nella ricerca
dei nuovi affetti e nel ricordo di chi se n’è andato le ragioni della
sua intensa profondità, dieci ballate dall’irrinunciabile tono dolente
che guardano al mondo, alle persone, ai loro lutti e speranze.
È da sempre la cifra artistica della cantautrice della Louisiana, quella
che l’ha resa un punto di riferimento dell’attuale Americana, dopo avere
a sua volta tratto grandi lezioni dai maestri, a occhio e croce su un
sentiero immaginario che da Townes Van Zandt passa per Lucinda Williams
e arriva a John Prine. Quest’ultimo, insieme al ricordo dei meno celebrati
David Olney e Nanci Griffith, è una presenza importante, anche stilistica,
nella stesura di questi brani, uno degli eroi/amici che se ne sono andati
in queste ultime stagioni e che si sommano a perdite più strettamente
intime, come l’amica Betsy, qui evocata nel mantra, accompagnato dal vibrante
violino di Michele Gazich, di How Could You Be
Gone. Eppure, come anticipato, c’è la solidità dell'amore
a reggere questa ripartenza, in un disco tutt’altro che chiuso in se stesso:
il trittico iniziale ne rappresenta la luce e l’aspettativa di una via
d’uscita, con tre ballate che sbocciano nell’elegante folk rock di Fall
Apart World, in quello agrodolce della melodia di Amsdterdam,
scritta e cantata in coppia con la nuova compagna Jaimee Harris, e nella
più candida delle confessioni in Thank God for You.
Mantenendo quella semplicità di approccio, quella scarna presenza folk
che ha nella stessa voce di Mary, limitata nei registri eppure autentica
nell’espressività, Dark Enough to See The Stars svela tuttavia
una cura negli arrangiamenti dove poche note, ma di grande eleganza, lo
rendono uno degli album più maturi della produzione della Gauthier. Un
pregio che va condiviso con la visione produttiva e sonora di Neilson
Hubbard, non inedita in questo atteggiamento, e negli interventi del piano
di Danny Mitchell e della steel guitar di Fats Kaplin, che adombrano di
nostalgia le richieste e le confessioni di Where Are You Now e
The Meadow, accarezzano la forma Americana classica della stessa
title track, firmata insieme alla collega Beth Nielsen Chapman, fino a
toccare la promessa di un futuro ricongiungimento con chi ci ha lasciato,
nella commovente chiusura di Till I See You Again.
Intelligentemente affiancata nella scrittura (e spesso anche nel raddoppio
delle voci) da una serie di consolidate amicizie artistiche, che vanno
da Ben Glover alla citata Jaimee Harris fino a Peter Case e Darden
Smith (uno dei co-autori della vagabonda ode alla strada di
Truckers and Troubadours) Mary Gauthier si conferma autrice capace
di toccare corde emotive e di indagare demoni personali con una purezza
di intenti che appartiene soltanto a chi ha vissuto sulla sua pelle il
lato oscuro della strada, inseguendo la salvezza in una canzone.