Ancora di
salvezza in un mare impetuoso - le stesse onde ritratte in copertina -
fatto di dolorose perdite, matrimoni finiti e ricordi sbiaditi dal tempo,
il curioso titolo del nono album di studio degli American Aquarium
rappresenta una metafora semplice ed efficace, che racconta dello stretto
legame della band e del suo indiscusso timoniere, BJ Barham, con il territorio
della North Carolina. Chicamacomico è infatti il nome di
una stazione di salvataggio della guardia costiera al largo delle Hatteras
Island, attiva dalla fine dell’800 fino alla metà del secolo successivo.
Le vite in balia della tempesta, complice la solitudine e lo scollamento
vissuto in questi anni di pandemia, sono alla ricerca di un appiglio,
di una ragione di esistenza. Con la sensibilità propria di un cantore
del Midwest americano, voce profonda da storyteller, là da qualche parte
fra Steve Earle e uno Springsteen in chiave southern country, Barham mette
a nudo per l’ennesima volta la sua anima, affrontando temi “pesanti”,
dalla scomparsa della madre in The First Year al ricordo di un
amico morto suicida in Waking Up The Echoes, e costruendo un disco
dalla cadenza intima e cantautorale, non distante dalle sue sortite in
solitaria (Rockingham
del 2016). Chicamacomico si trasforma così - eccezion fatta per
il traballare honky tonk di Little Things,
il country rock da autentico heartland americano di Built to Last
e dell’innodico finale tra speranza e rinascita in All
I Needed - nella raccolta più privata e introversa della produzione
recente degli American Aquarium, una formazione cha ha fatto dell’interdipendenza
con i suoi fan e il piccolo mondo della provincia americana una ragione
di cocciuta testimonianza artistica.
Lo dimostra anche l’allestimento stesso di Chicamamico, inciso
nell’autunno dello scorso anno presso il prestigioso studio Sonic Ranch
in Texas grazie al supporto di una generosa campagna di crowfunding che
ha superato ogni aspettativa. Il dato positivo è che Barham e soci, tra
cui emergono la steel guitar di Neil Jones e il piano di Rhett Huffman,
non hanno “accontentato” la platea, imbastendo semmai un disco breve e
dall’animo meditativo e dolente, che nella seconda parte si adagia sui
toni agrodolci della ballata, sia essa acconciata da un certo laid back
sudista in Wildfire o più propensa
al racconto biografico country folk in The Things We Loast Along the
Way e The Hardest Thing, punteggiate da orizzonti desolati,
chitarre acustiche e una lontana eco della pedal steel. Una tendenza che
già emergeva a tratti nei lavori precedenti, ma allora spezzata dall’irruenza
alternative country e punk roots alla base del suono degli American Aquarium,
che oggi invece inseguono un tempo più maturo e scosso dai bilanci della
vita.