Condividi
 

The Hold Steady
Open Door Policy
[Positive Jams/ Goodfellas 2021]

Sulla rete: theholdsteady.net

File Under: (soul) rock resistance


di Fabio Cerbone (01/02/2021)

Hanno fatto presto a ricaricare le batterie The Hold Steady: sulla scia di un ritrovato entusiasmo, grazie al ritorno proverbiale delle tastiere di Franz Nicolay, che ha positivamente influenzato scrittura e musica nel precedente Thrashing Throu the Passion, la band di Craig Finn non ha perso tempo, dando voce e spazio a dieci nuove canzoni, incise nel corso di due sessioni nella seconda parte del 2019. Confermata la squadra vincente di quell’album, con il produttore Josh Kaufman a tenere dritta la rotta, la formazione si è rintanata nel Clubhouse studio, stato di New York, facendo emergere canzoni che sono ancora una volta la fotografia degli angoli nascosti dell’America. L’intenzione è stata quella di concepire una sorta di opera corale, “grand piece” come la definisce la band stessa: non esattamente un concept album, termine che male si addice all’immaginario operaio e allo sferzante rock stradaiolo del gruppo, ma senz’altro un ciclo di canzoni tenute insieme da una forma di resistenza, quella che descrive perfettamente il ruolo degli Hold Steady, ormai custodi di un sacro fuoco classic rock che può tranquillamente fare da ponte tra più generazioni.

Gente che tiene duro, e che celebra la tribolata vita americana, confusa e lacerata, attraverso racconti dal basso, short stories, quelle di cui Craig Finn è maestro indiscusso nel songwriting, canzoni che attraversano ricchezza, povertà e salute mentale di una società ossessionata dal consumismo, dalla tecnologia e per contro alla ricerca disperata di una via di fuga, di una libertà spesso ribaltata in fanatismo. Open Door Policy, la politica della porta aperta, dell’accoglienza, insomma dell’altro lato umano rispetto a quello che gli Stati Uniti sembrano avere offerto nel loro recente spettacolo sociale: si parte con il piede che frena, tra le malinconie del brano The Feelers, Finn che declama il suo inconfondibile talkin’, tracciando nuovamente un ponte fra la sua carriera solista e quella dentro la band, mentre gli spigoli e il pungente raccordo delle chitarre di Spices, primo bersaglio pieno dell’album, fa crescere la tensione.

Nulla di nuovo e rivelatorio, si dirà, Open Door Policy è “soltanto” il disco che sancisce l’età matura degli Hold Steady, il perfetto equilibrio tra le scosse punk rock giovanili e i calore soul di questa stagione (clamorosa nel finale Hanover Camera, basso che pulsa, fiati e un piano elettrico dall’assopita aria blues), sempre più dipendenti da quella affettuosa coperta rhythm’n’blues (Stuart Bogie e Jordan McLean ai fiati) e dalle carezze delle backing vocals femminili (Cassandra Jenkins e Annie Nero), a rendere Family Farm o l’irresistibile Heavy Covenant arrembanti aggiornamenti del Jersey sound che fu, una sorta di E-Street band in formato ridotto che si imbarca in una notte alcolica con i Replacements.

Album aperto a sprazzi di luce e con qualche passaggio leggero e sottilmente pop (gli urletti cacciati nel mezzo di Unpleasant Breakfast, il battito accattivante di Riptown), Open Door Policy assume su di sé persino nuovi significati nella stagione della pandemia vissuta dalla band, che come tanti colleghi ha dovuto gioco forza rimodellare la carriera, i tour e la stessa promozione del disco. Nel fare sopravvivenza rock gli Hold Steady sono maestri e sarà per tale motivo che canzoni quali The Prior Procedure o ballate rotolanti come Me and Magdalena, in apparenza "normale amministrazione", si caricano di nuova energia e altrettanto senso di necessità, per il solo vantaggio di esistere.


    


<Credits>