Hanno fatto presto a ricaricare
le batterie The Hold Steady: sulla scia di un ritrovato entusiasmo,
grazie al ritorno proverbiale delle tastiere di Franz Nicolay, che ha
positivamente influenzato scrittura e musica nel precedente Thrashing
Throu the Passion, la band di Craig Finn non ha perso tempo,
dando voce e spazio a dieci nuove canzoni, incise nel corso di due sessioni
nella seconda parte del 2019. Confermata la squadra vincente di quell’album,
con il produttore Josh Kaufman a tenere dritta la rotta, la formazione
si è rintanata nel Clubhouse studio, stato di New York, facendo emergere
canzoni che sono ancora una volta la fotografia degli angoli nascosti
dell’America. L’intenzione è stata quella di concepire una sorta di opera
corale, “grand piece” come la definisce la band stessa: non esattamente
un concept album, termine che male si addice all’immaginario operaio
e allo sferzante rock stradaiolo del gruppo, ma senz’altro un ciclo di
canzoni tenute insieme da una forma di resistenza, quella che descrive
perfettamente il ruolo degli Hold Steady, ormai custodi di un sacro fuoco
classic rock che può tranquillamente fare da ponte tra più generazioni.
Gente che tiene duro, e che celebra la tribolata vita americana, confusa
e lacerata, attraverso racconti dal basso, short stories, quelle di cui
Craig Finn è maestro indiscusso nel songwriting, canzoni che attraversano
ricchezza, povertà e salute mentale di una società ossessionata dal consumismo,
dalla tecnologia e per contro alla ricerca disperata di una via di fuga,
di una libertà spesso ribaltata in fanatismo. Open Door Policy,
la politica della porta aperta, dell’accoglienza, insomma dell’altro lato
umano rispetto a quello che gli Stati Uniti sembrano avere offerto nel
loro recente spettacolo sociale: si parte con il piede che frena, tra
le malinconie del brano The Feelers, Finn che declama il suo inconfondibile
talkin’, tracciando nuovamente un ponte fra la sua carriera solista e
quella dentro la band, mentre gli spigoli e il pungente raccordo delle
chitarre di Spices, primo bersaglio
pieno dell’album, fa crescere la tensione.
Nulla di nuovo e rivelatorio, si dirà, Open Door Policy è “soltanto”
il disco che sancisce l’età matura degli Hold Steady, il perfetto equilibrio
tra le scosse punk rock giovanili e i calore soul di questa stagione (clamorosa
nel finale Hanover Camera, basso che pulsa, fiati e un piano elettrico
dall’assopita aria blues), sempre più dipendenti da quella affettuosa
coperta rhythm’n’blues (Stuart Bogie e Jordan McLean ai fiati) e dalle
carezze delle backing vocals femminili (Cassandra Jenkins e Annie Nero),
a rendere Family Farm o l’irresistibile
Heavy Covenant arrembanti aggiornamenti del Jersey sound che
fu, una sorta di E-Street band in formato ridotto che si imbarca in una
notte alcolica con i Replacements.
Album aperto a sprazzi di luce e con qualche passaggio leggero e sottilmente
pop (gli urletti cacciati nel mezzo di Unpleasant Breakfast, il
battito accattivante di Riptown), Open Door Policy assume
su di sé persino nuovi significati nella stagione della pandemia
vissuta dalla band, che come tanti colleghi ha dovuto gioco forza rimodellare
la carriera, i tour e la stessa promozione del disco. Nel fare sopravvivenza
rock gli Hold Steady sono maestri e sarà per tale motivo che canzoni quali
The Prior Procedure o ballate rotolanti come Me
and Magdalena, in apparenza "normale amministrazione",
si caricano di nuova energia e altrettanto senso di necessità, per il
solo vantaggio di esistere.