File
Under: pièce de résistance
di Fabio Cerbone (16/09/2019)
Se esiste una ragione che
tiene in vita una certa idea di rock’n’roll, romantico e orgoglioso nell’intenzione
di affermare la bellezza della sconfitta, del sentirsi spesso fuori posto
nei panni dell'outsider, questa è da ricercare nell’esistenza di band
come gli Hold Steady. E con loro dovremmo dire dei vari Lucero,
Drive By Truckers, Bottle Rockets, gruppi che fanno della testimonianza
ai margini dell’american dream la spinta propulsiva per le loro canzoni,
senza essere alla moda, ultimi baluardi di una tribù che sopravvive in
ritirata. A cinque anni dal ruvido Teeth
Dreams, sospesi per lungo tempo in un limbo occupato dalle
uscite soliste del leader Craig Finn, The Hold Steady recuperano forza
e slancio per un altro giro sulla giostra impazzita dell’elettricità.
Irrobustiti a granitico sestetto, con il provvidenziale ritorno in formazione
del pianista Franz Nicolay, i ragazzi newyorkesi di Brooklyn (ma adottati
idealmente da Minneapolis) sono oggi uomini maturi che stemperano la riottosa
voce degli esordi in favore di un rock’n’roll più denso di sfumature,
dove il senso della canzone detta il passo. Thrashing Thru the Passion
è nelle parole stesse di Finn un album che trasmette un senso palpabile
di comunità e gioia, un’intesa positiva tra i membri che non sono tenuti
a dimostrare più nulla, basta il caracollare di Denver
Haircut ed Epaulets per identificarne lo stile. Quest’ultimo
magari più contenuto e assennato di una volta, ma per nulla accondiscendente:
la band getta il cuore oltre l’ostacolo, pesca nel fervore di Replacements
e Husker Du, loro stelle polari, e rimette in circolo quel suono con il
timbro del classic rock, i fiati dell’Asbury sound, il racconto dei bassifondi
di Lou Reed.
Diventa così un’altra volta piacevole inseguire il fiume di parole e personaggi
spiattellati da Craig Finn, che mai come adesso avvicina la musica degli
Hold Steady alla sua produzione solista: potrebbero giungere da lì l’intensità
dei colori soul di Blackout Sam, uno
dei gioielli del disco insieme all’incedere di You Did Good Kid
e più in generale di una prima facciata che si lascia trascinare volentieri
dalla sezione fiati aggiunta (Stuart Bogie e Jordan McLean) per offrire
calore alla performance. L’intuizione della band e del produttore Josh
Kaufman è quella giusta e tra il racconto di un improbabile incontro con
Peter Tosh (Star 18) e riflessioni sul potere nostalgico e curativo
del rock (Traditional Village), Thrashing Thru the Passion si impone
come una sorpresa che forse neppure i più accaniti sostenitori degli Hold
Steady avrebbero immaginato, soprattutto perché giunta dopo una pausa
che sembrava annunciare una scoperta stanchezza artistica.
Se proprio dovessimo muovere una lamentela, il secondo tempo tende a conservare
una formula, ma come dargli torto se l’effetto è quello brioso di Entitlement
Crew e T-Shirt Tux, con lo zigzagare spigliato delle tastiere
di Nicolay e le chitarre di Tad Kubler che stringono saldo il timone.
Bertornati.