Destino strano quello di
Jay Farrar e della sua creatura Son Volt, nati dalle ceneri degli
Uncle Tupelo (ma dobbiamo davvero ricordarvelo?) con premesse persino
più promettenti di quelle dell’antico compare Jeff Tweedy e dei suoi Wilco,
ma rimasti invece negli anni relegati ad un mondo di appassionati di genere,
mentre Tweedy nel frattempo cavalcava palchi in linea con le mode degli
anni 2000. L’aspetto che spesso viene sottolineato della loro storia musicale
è un certo immobilismo stilistico, che rende i dischi dei Son Volt, ma
pure le stesse singole canzoni che li compongono, sostanzialmente sempre
identici se ascoltati da un orecchio non allenato, ma noi sappiamo che,
al netto di una possibilità espressiva non proprio vastissima della sua
vocalità e della sua concezione artistica, non è esattamente così. Per
questo motivo Electro Melodier, decimo album della sigla,
ci è piaciuto subito, perché rappresenta una summa delle anime della sua
musica, che passano dalle chitarre rozze di Reverie alle ballate
sognanti come Arkey Blue (ma anche qui nel finale il break di chitarra
elettrica sottolinea i due tipici registri di Farrar).
Electro Melodier è un disco da lockdown come tutti quelli che stiamo
ascoltando di questi tempi, nato durante il forzato stop al tour di Union,
che Farrar ha sfruttato positivamente con una serie di canzoni davvero
ben scritte, che fotografano la situazione del suo paese, non più tanto
con la vis polemica che animava il precedente disco, quanto semmai con
un taglio giornalistico di pura presa di coscienza dello stato di una
società, prima ancora di una nazione. In questo senso l’inserimento di
alcuni brani che fanno il punto anche sul suo lungo matrimonio (Lucky
Ones e Diamonds and Cigarettes,
ballatona da brividi con la voce di Laura Cantrell), assume un aspetto
quasi di voluto parallelo tra vita privata e rapporti sociali, che si
stanno rigenerando e ricostruendo dopo lo tsunami del Covid: ormai ci
si rende conto anche nelle canzoni quanto sia una rivoluzione globale
paragonabile all’11 Settembre 2001.
Ma è tutto il disco che appare essere particolarmente ispirato, con un
anthem come Living In The USA (springsteeniana
non solo nel titolo) che tornerà sicuramente buono nei prossimi tour,
dure fotografie della realtà come War On Misery
(e qui siamo in puro campo gothic-country, come anche The Levee On
Down) o These Are The Times, episodi che confermano Jay Farrar
come uno dei più meritevoli eredi della filosofia di Woody Guthrie, solo
con qualche scarica elettrica in più. Ma come aveva già provato nel valido
The Search del 2007, qui prova anche ad ampliare il sound con qualche
inusuale intervento (il moog di The Globe) e qualche volutamente
non celato richiamo alla storia del rock (i Led Zeppelin echeggiati da
Someday Is Now).
Un album comunque ottimista e pieno di speranza, nonostante i toni cupi
e malinconici tipici del suo autore, e forse era proprio quello di cui
avevamo bisogno ora.